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foto (c) Giulia Nuti
La voce è melodica senza forzare sul registro alto, la capacità strumentale è eccellente. Inoltre si sente come i brani siano scritti da una musicista di provincia (se così si può chiamare uno stato americano, in questo caso l’Oregon) e riveduti e corretti in città (anzi, la metropoli per eccellenza, New York). Il concerto londinese di Laura Gibson ha lasciato questa impressione: il pubblico si è trovato di fronte una persona concreta, senza fronzoli, con storie da raccontare e una bella musica che le descrive. Laura Gibson ha portato in tour i brani del suo album più recente, Empire Builder. Un disco che si fa ascoltare volentieri dall’inizio alla fine, e che se vogliamo proprio trovargli un difetto è quello degli arrangiamenti che a volte rischiano di soffocare la spontaneità della melodia. Allora la dimensione dal vivo appare corretta per il lavoro di Laura Gibson, la cui iniziale Damn Sure colpisce subito l’attenzione del pubblico. Il concerto è proseguito con la parte iniziale dell’album con The Cause e Empire Buider. Accompagnata da una band di due polistrumentisti e un batterista, Gibson ha affrontato anche chitarra elettrica e viola, con una parte centrale del concerto in cui si è esibita da sola con la chitarra acustica. Affascinante la resa delle ballate The Search of The Dark Lake e di Five and Thirty; il finale invece coincide con quello del disco, quella The Last One, un valzer nella migliore tradizione dello stile Americana con un tocco di psichedelia. Fuori programma con La Grande e pubblico contento e festante, dopo un ascolto nel segno della grande attenzione,
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