(Proper/IRD)
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Diamo uno sguardo veloce all’oggetto che abbiamo tra le mani; il nuovo disco di Malcom Holcombe, quattordicesima fatica a distanza ravvicinata dalle rivisitazioni di The RCA Session. Tra il nero e il grigio della tetra copertina scrutiamo l’interno di una baracca. Tre topi bazzicano tra i mozziconi, le tende sfilacciate, una bottiglia di whisky, i giornali sudici e uno scheletro. Voltando la cover, ci immaginiamo di rivedere la cornice dell’inquietante scenario nella buca di una chitarra, le cui corde sono la porta d’ingresso e il suono di questo luogo buio dove risiede l’anima di questo sincero cantautore statunitense. Another Black Hole, appunto. Cerchiamo di scrivere per immagini, che da sole riescono davvero a raccontare la musica di quest’uomo cresciuto ai piedi dei monti Appalachi, nel cuore di un’America che conosciamo anche senza averci mai messo piede. Quella lontana dal mito, dal sogno (“from the magazines o’ the american dream the grass is always greener on my neighbor’s property”), dipinta negli occhi gelidi e vissuti, viziosi e vibranti, che da sempre delineano il volto da ‘bad boy’ di Malcolm Holcombe, chitarrista tormentato e naturalmente maledetto nella migliore tradizione alcolista e depressiva di tanti suoi predecessori. È proprio tale realtà disincantata e disillusa, nuda e cruda, a emergere dalle dieci tracce del disco, nelle quali un folk intriso di malinconia è sicuramente terreno comune (To Get By, Heidleberg Blues, Someon Missin’, September, Leavin’ Anna, Way Behind) e il rock può fare breccia come un fulmine a ciel sereno (Papermill Man), il country incontrare il bluegrass (Sweet Georgia), il blues abbracciare il soul (Another Black Hole, Dont Play Around). Niente di nuovo e magari qualche luogo comune, ma qui è la vita reale a contare e trasudare dal disco insieme alla saliva di Malcolm Holcombe. Quaggiù non gridiamo al miracolo, che è grazia e non ci spetta, quaggiù tiriamo avanti (“to get by, Lord, to get by …”) come eternamente bloccati in una porta girevole (“stuck in a revolvin’ door”). E difatti, tornando al booklet, i ringraziamenti dell’opera si rivolgono all’immeritata misericordia di Dio e a tutti gli abitanti di questo vecchio pianeta: siamo tutti ‘old friends’ in questa comune ricerca di salvezza.
Ruggero Chiaramonte
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