(Ala Bianca Group)
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“Ora che ho perso la vista, ci vedo di più” (Nuovo Cinema Paradiso, 1988). Quella maggiore sensibilità che sembra donare l’atto del non vedere è fascino autentico per l’umanità. Correva l’anno 1991 quando Wim Wenders presentò al mondo il suo Bis ans Ende der Welt, svelando i pericoli di una civiltà assuefatta dalle immagini. Profetico, d’avanguardia, ma allora incompreso e pretenzioso. Oggi che il termine ‘visionario’ è più che abusato, suona solo provocatoria nonché quasi ipocrita la denuncia di una realtà in cui ogni cosa è anzitutto apparenza, e il nostro occhio, imprescindibile padrone della scena, è drogato e regolarmente ingannato per ricavarne nuovo stupore, rinnovata attenzione. E quando il filtro è tale che pure il campione di National Geographic, Steve McCurry, viene pizzicato a ritoccare proprio quella realtà di cui dovrebbe essere rigoroso paladino, dove la andiamo a ricercare la verità? Be Blind è il titolo di un disco con cui un’inspirata Debora Petrina intende portare la propria esperienza, personalissima fin dalle prime note dell’opener November 10th (data legata a un intervento chirurgico alle corde vocali). Dieci brani di musica irrequieta, nervosa, che coerentemente sceglie di fare leva sul rock e sull’elettronica, rincorrendo nel tempo la new wave e le icone femminili degli anni ’90 (Tori Amos, Neneh Cherry, Björk, e altre). Le sonorità sono piuttosto debitrici di quel decennio, così come il cantato di Petrina, strafottente ‘grunge’ (Paper Debris, I Like), sciamanico (Wild Boar, Broken Embraces), penetrante e sensuale (Supercharged Machine). I temi, al contrario, sono tutti attuali: le storie d’amore concluse e le parole non dette che restano sospese per sempre; la profonda incapacità di comunicare al cuore nonostante la capillare connettività; la stessa rete come entità oracolo dalle molte facce contraddittorie; il network che ci rende evanescenti sociali, finti commedianti, sconosciuti non appena sotto la superficie del visibile; la malattia che isola degradando le nostre capacità e i nostri sensi. Ci sentiamo più smarriti pur essendo inebriati da un mondo sempre più vasto e ancor più investigabile. E se in tanta complessità bastasse quindi chiudere gli occhi per poter ‘ritrovare’ una via di fuga, per ricominciare a percepire l’essenza delle cose oltre il solo sentire? Parrebbe assurdo, ma non è vero forse che l’amore, bene primario e forza del mondo, è cieco per definizione (“Love must needs be blind” ‘twittava’ Samuel Taylor Coleridge secoli fa)? Guarda caso, la musica è allo stesso modo priva di immagini e ugualmente capace di riempirci il cuore di felicità: cosa necessitiamo davvero per vivere?
Ruggero Chiaramonte
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