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(Crotalo Edizioni Musicali)
La metafora del barrique, della decantazione, è particolarmente adatta a descrivere il primo disco di Filippo “Bluesboy” Barontini, bluesman toscano attivo da molti anni con svariati progetti. Ben tre anni infatti sono passati da quando fu concepita l’idea originaria: un periodo che è servito al chitarrista e cantante per curare tutti gli aspetti di un lavoro decisamente sentito. Per dare corpo all’amore di una vita (il blues, in particolare quello più vicino al soul di B.B.King, Albert King, The Blues Brothers, ecc.) Barontini ha coinvolto alcuni tra i migliori professionisti della scena musicale toscana (e non solo): alla direzione artistica troviamo infatti l’illustre Vince Vallicelli (qui anche in veste di batterista), mentre Christian Pujo (tromba) ed Alessandro Solenni (pianoforte e tastiere) hanno curato arrangiamenti rispettivamente di fiati ed armonie. Ed è proprio quando è più evidente la collegialità dello sforzo che “Blues In Barrique” vola particolarmente alto: è il caso della potente ripresa di “Honey Hush”, in cui un climax di interventi di organo ed armonica caricano al massimo la chitarra del band leader, o della intensa versione di “Minnie The Moocher”, dove la ribalta è tutta per pianoforte e fiati. Un discorso a parte lo meritano due tracce – tra le 10 che costituiscono il lavoro, ottimo nella sua interezza – che già da sole giustificherebbero l’acquisto del CD: sono due pezzi originali, lo strumentale conclusivo “Margot” (in cui l’armonica di Enrico Forasassi evoca la notte più profonda) ed una bellissima ballad in due parti, “Roots”: nel magnetico assolo finale la chitarra di Bluesboy è pienamente dentro quel suono, quella tradizione del tocco (oggi sempre più rara a trovarsi) che partì dalla Lucille di B.B.King per arrivare alla Les Paul di Peter Green; un’intenzione che Michael Bloomfield considerava il modo più puro di suonare il blues, pur definendolo semplicemente come “sweet”. Sweet Blues, appunto.
Pietro Rubino
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