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Rachael Sage, newyorkese di origine, è un’artista eclettica. E’ cantautrice, polistrumentista, produttrice, ballerina, poetessa, attrice e artista visiva. Tutte le sue abilità si trovano perfettamente sintetizzate nella sua musica ma una in particolare caratterizza Choreographic, suo nuovo lavoro e undicesimo con l’etichetta MPress: la danza, sua prima passione fin dall’infanzia. Negli anni Rachael ha messo a segno numerose collaborazioni importanti. Innanzitutto quella con Judy Collins, di cui ha aperto numerosi concerti, ma sono da citare anche quelle con Ani Di Franco, Marc Cohn, Phil Ramone. Choreographic ritrae una Rachael Sage matura e con le idee più che mai chiare. Si passa da accattivanti brani cantabili come Try Try Try, che ha valso alla Sage anche la presenza nelle classifiche americane, agli arrangiamenti sinfonici e curati di Heaven (Is a Grocery Clerk),dal lieve terzinato di Loreena alla dolcezza di Home. Un disco segnato dall’eleganza, che si muove quasi a passo di danza e che si avvale della collaborazione di nomi importanti come il co-produttore Andy Zulla (Idina Menzel, Rod Stewart, vincitore di un Grammy) e l’ingegnere del suono John Shyloski (candidato ad un Grammy).
Giulia Nuti
A colloquio con Rachel
Nonostante il tuo amore per il ballo sia sempre andato di pari passo con quello per la musica, è solo con Choreographic che arriva un esplicito tributo all’arte della danza. Come sei giunta a questa scelta?
«Sai, a volte non sei la miglior giudice di te stessa rispetto alle cose che crei. Suppongo che già da molti anni avessi incorporato nelle mie canzoni elementi provenienti dalle mie esperienze di danza e dalla musica classica; molta gente li percepiva, ma io non ne ero altrettanto consapevole. Finché, ad un certo punto, mi accorsi che uno show televisivo molto in voga in America, “Dance Moms” (un reality show che segue l’allenamento quotidiano di alcune giovani ballerine) aveva cominciato ad utilizzare diversi miei pezzi – in tutto circa 17. All’inizio pensai semplicemente ad una coincidenza, ma quando le canzoni utilizzate divennero 10, realizzai che forse avevano sentito qualcosa di particolare nella mia musica. Infine, dopo 17 brani mi sono detta che, se avessi cominciato a comporre musica pensando esplicitamente alla danza, forse sarebbe stato ancora più facile ballare su di essa. Questo era il concetto che stavo elaborando. Dopo di ciò, decisi di collaborare il più possibile con quel mondo, ad esempio girando dei video con delle ballerine, ed esibendomi in scuole di ballo.»
Il titolo del tuo ultimo disco richiama ovviamente la dualità tra musica e ballo. Ma indica anche un metodo di lavoro?
«Naturalmente. Oltre a questa dualità, ero altrettanto consapevole dell’importanza della parola “graphic” nel titolo. D’altronde sono una cantautrice, una poetessa, ma anche un’artista visuale ed una graphic designer: in effetti ho impostato io stessa la grafica di quasi tutti i miei album, e anche di quelli di altri artisti. Direi quindi che la combinazione tra musica e arti visuali in generale – e la danza in particolare – è stata la mia ricetta personale per scrivere questo album.»
Pensi di sviluppare ulteriormente il rapporto tra musica e ballo, magari esplorando altri generi e connessioni tra le due forme?
«Assolutamente! Abbiamo appena girato un nuovo video dalla mia canzone “Try Try Try”, di cui proprio oggi dovrei visionare la versione preliminare. Nel video c’è una prima ballerina dell’American Ballet Theatre e del Joffrey Ballet, semplicemente straordinaria! Lo potrete vedere molto presto. Inoltre, come accennavo prima, mi sto esibendo nelle scuole, sia in accademie di ballo che in normali istituti con classi specifiche di danza. Abbiamo anche deciso con alcune scuole inglesi di organizzare un contest, con in palio una borsa di studio: le classi concorrenti elaboreranno delle coreografie sulla mia musica, e ci invieranno i video per la premiazione. Sostanzialmente stiamo cercando di dare energia ed ispirazione a queste giovani ragazze – ma anche i maschietti sono i benvenuti! Vedremo cosa succederà!»
Nel disco suoni un’ampia varietà di strumenti, classici e moderni. Come hai sviluppato il tuo percorso musicale in questo senso?
«Come musicista sono fondamentalmente autodidatta, mentre come ballerina ho avuto un lungo addestramento formale (io metterei una lunga formazione ufficiale): in effetti questo è un altro motivo che mi ha spinto a scrivere consapevolmente del materiale ispirato al ballo, perché sono molto grata alla danza per avermi dato gli strumenti per comporre musica. Ho cominciato suonando il piano ad orecchio, a casa. Più avanti ho imparato come comporre musica lavorando con dei registratori multi traccia. La chitarra è invece un esperimento molto più recente: ho cominciato perché mi intrigava quel tipo di suono, ma non è stato per niente naturale! Ho preso qualche lezione, ma fondamentalmente ho imparato gli accordi di base ed ho sviluppato il mio stile personale, ho studiato fingerpicking per qualche anno…anche la chitarra elettrica è una cosa nuova per me, ma la adoro! Amo la possibilità di giocare con tutti quei suoni differenti per creare emozioni. Il mio effetto preferito è il tremolo!»
Nel disco compare una intensa cover di “So Far Away” di Carole King. Qual è il tuo rapporto con il folk di quegli anni?
«Beh, non considero necessariamente Carole King una vera e propria folk singer, anche se l’interpretazione di alcune sue canzoni può essere definita “folkie”, per via dell’utilizzo del piano, della chitarra acustica (vedi ad esempio James Taylor, o Russ Kunkel). Penso che abbia a che fare con l’estetica di quegli anni, con il fatto che la gente si aspettava che i cantautori attingessero dal linguaggio folk, con quel tipo di approccio genuino…per quale ragione non so, non ero lì! E’ una concezione di suono che ogni tanto ritorna, non è mai veramente sparita. Ma quando penso a Carole King, al suo vastissimo repertorio – per esempio, alle cose che ha scritto per i grandi cantanti della Motown, come Aretha Franklin – penso ad una autrice senza tempo, non necessariamente una narratrice…ma una persona capace di prendere una sensazione, un’emozione ed estenderla per diversi minuti…ed è qualcosa che ti rimane impresso, che realmente crea un ricordo forte…ecco cosa mi ha attratto del suo lavoro. Sono stata spesso paragonata a lei, forse perché sono una simpatica ragazza ebrea che suona il piano! Ma spero che sia anche perché Carole ha sempre scritto delle melodie e dei ritornelli molto incisivi, accattivanti…ed io mi sono sforzata di fare la stessa cosa sin da quando ero una bambina. Non so bene perché, forse era il mio destino…ma sin da quando avevo 5 anni desideravo comporre delle melodie che gli altri volessero canticchiare, ascoltare più volte…e considero questo un vero potere, una maniera molto forte di comunicare.»
Hai anche avuto modo di collaborare con Judy Collins, un’icona di quel folk più vicino alla tradizione. Cosa puoi raccontarci in proposito?
«Beh, lei è realmente una folk singer! Si potrebbe definire una musicologa del genere, conosce tutti i grandi autori di quell’epoca ed è un personaggio molto influente ancora oggi. Certo, è universalmente conosciuta per aver interpretato canzoni scritte da altri – Leonard Cohen, Joni Mitchell, Jimmy Webb – ma ritengo che anche le sue canzoni suonate al piano siano brillanti: possiede uno stile molto fluido, che forse mi ricorda un po’ Tori Amos, per via delle influenze classicheggianti. Molti non sanno che Judy era una bambina prodigio al pianoforte. Ma quel che più adoro di lei è la sua positività, e il fatto che la sua voglia di esibirsi traspare naturalmente ancora oggi. E stare accanto ad una persona con così tanta esperienza, che ha affrontato alti e bassi e innumerevoli sfide personali, ti rende in qualche modo umile, oltre ad ispirarti. Ho imparato veramente molto da lei.»
La tua è una poetica fatta di emozioni, personaggi, ed anche luoghi. “Home”, che compare in Choreographic, sembra proprio far riferimento alla tua città, New York. Immagino che il rapporto con lei sia molto stretto.
«In realtà la scintilla per quella canzone è venuta da una ragazza di Dublino, il cui nome è Fiona Harte. Mi ha contattato per email, una volta, chiedendomi se fosse possibile scrivere insieme una canzone. Per quanto possa sembrare strano non ho mai scritto in collaborazione con qualcuno, a parte qualche jingle commerciale quando avevo circa 20 anni…sono un po’ egoista da questo punto di vista, mi piace essere al comando quando scrivo le mie canzoni (ride)! Allora le ho risposto (a quel tempo Fiona era un’adolescente): “beh, avrei bisogno di conoscerti meglio, di sapere qualcosa in più della tua vita, se hai un ragazzo, quali sono i tuoi interessi, le tue passioni…”. Così ci siamo viste, abbiamo preso un caffè nel mio ufficio, cose così…e mentre lei parlava ho buttato giù alcune idee, rispetto alla sua vita, la sua mentalità…e continuava a parlare di quanto amasse New York. Quindi in realtà il senso della canzone è venuto da lei – ovviamente anche io amo New York, è l’unica città in cui vorrei vivere. Inizialmente volevo scrivere una canzone che fosse giovane nel profondo, sull’innocenza e l’eccitazione di vivere a New York. Ma alla fine è diventata una canzone universale sul concetto di casa, ossia qualunque luogo verso cui ti portino il tuo spirito le tue ambizioni, le tue passioni.»
Diversi arrangiamenti nel disco richiamano la musica classica, la cultura europea. Qualè il tuo rapporto con il vecchio continente? Lo visiti spesso?
«Beh, ci provo! Mi piacerebbe lavorare in Europa più spesso. Ho avuto modo di fare un paio di tour piuttosto lunghi in Germania e Austria, uno in particolare con il grande Eric Burdon degli Animals, forse il più lungo tour che abbia fatto in assoluto: ero così eccitata dalla situazione che mi capitava spesso di scrivere canzoni nel tour bus. Mi sono esibita un paio di volte a Parigi, ed è sempre molto piacevole. Ma sto ancora cercando di mettere un piede fermo qui, serve un po’ di aiuto, occorre sviluppare delle relazioni, che poi è quello che stiamo facendo ora!»
Choreographic avrà anche una rappresentazione scenica?
«Mi piacerebbe, sarebbe un sogno. Sto pensando in effetti a qualcosa del genere per un evento chiamato APAP che si terrà all’inizio del prossimo anno a New York – fondamentalmente è una grande conferenza di respiro internazionale sulle arti dello spettacolo – ma il tempo passa così rapidamente, e sono stata così impegnata in questo periodo. E’ un lavoro enorme, devi affittare un teatro, fare promozione, organizzare le audizioni per le ballerine, trovare i coreografi…così a questo punto penso che posticiperò il tutto di qualche mese, ma è qualcosa che comunque voglio fare. E’ stato molto positivo il lavoro fatto con alcune ballerine nei miei video, mi ha permesso di conoscerle, di includerle nella mia comunità artistica. Così, se dovessi tornare su quell’idea, sicuramente contatterò le persone che hanno lavorato sul mio video “Try Try Try”. C’è anche una ragazza di appena 12 anni, con una grandissima passione, un giovane genio. Si chiama Kaci. Lei e sua madre mi chiedono sempre di venire in tour con me, ma i posti in cui sarebbe possibile esibirsi insieme sono veramente pochi, nella maggior parte vige il limite di 21 anni di età per l’accesso! Comunque potete già vederla danzare nel mio video “I Don’t Believe It”. E’ veramente fenomenale!».
Pietro Rubino
Rachael Sage in concerto. Teatro del Sale, Firenze 19 ottobre 2016. Undersolo, Londra 26 ottobre 2016
Nel disco strumentazione e arrangiamenti curati sono una caratteristica che è evidente in tutte le tracce. Per questo gli spettacoli europei di Rachael Sage in Europa, affiancata dalla violinista Kelly Halloran, sono stati un’occasione per verificare le canzoni della songwriter di New York nella loro essenzialità. Tra i due set che Il Popolo del Blues ha visto a distanza di una settimana, quello di Londra (nella foto) si è incentrato sui brani più significativi del nuovo album. La durata del set infatti era piuttosto breve, nell’ambito di una serata con più momenti musicali. In questa occasione Rachael ha sfoderato tutta la sua professionalità nel proporre Talk Talk Talk, Heaven is a Grocery Store, Home. Diversa la situazione fiorentina dove l’artista ha avuto un’ora a disposizione per sviluppare un percorso musicale che si è rivolto all’intero repertorio (ricordiamo Invisible Light da Haunted By You), ma che ha anche mostrato come Rachael Sage si sappia muovere sul palco accennando a passi di danza e caratterizzando microfono e tastiera con dei boa colorati. Un modo per fare partecipe il pubblico della propria visione artistica che non comprende solo la musica. Questa ha però una parte fondamentale grazie a un’esperienza e un lavoro molto accurato che dura da tanti anni.
Michele Manzotti
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