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PARTE 2- Della California, di B.B. King e della psichedelia
Che ne pensi dello stato attuale della musica popolare, sia essa rock, blues, folk?
Beh, non è sicuramente un buon momento. Anche se sono un figlio degli anni ’60 (ride), non ho prevenzioni particolari verso la tecnologia – anche in quel periodo si stava sviluppando esponenzialmente, ed in fondo senza di essa i Beatles non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto. E’ solo dopo – a metà degli anni ’70 circa – che le grandi compagnie hanno preso il comando. Ma questo periodo di intermezzo – di sviluppo tecnologico e libertà creativa – è stato pazzesco, di un’apertura totale – al punto di rasentare quasi la stupidità, a volte: chiunque suonasse un po’ la chitarra ed avesse qualche canzone, poteva stipulare un contratto discografico. La cosa interessante è che allora i produttori, chi gestiva il music business insomma, erano per la maggior parte persone che amavano sinceramente la musica, ed erano disposti a rischiare per essa. Si è detto spesso che se Joni Mitchell si presentasse oggi ad una grossa casa discografica, probabilmente la rimanderebbero a casa! Sicuramente fu lo sviluppo della tecnologia, gli equipaggiamenti – anche il denaro, in ultima analisi – a permettere il fiorire di quella creatività. Ma difficilmente si diceva ai musicisti cosa e come dovevano incidere. Con il tempo le case discografiche hanno realizzato che avrebbero potuto produrre la stessa musica facendo più soldi e senza correre rischi, ed è così che tutto è diventato business. Se ci fai caso i successi pop di oggi sono quasi privi di melodia, è solo beat. E’ tutto abbastanza triste. C’è anche da dire che in quegli anni la musica era veramente il traino della cultura, mentre ora è stata sostituita dalla TV.
Ci sono degli artisti attuali che ti hanno colpito in qualche modo?
Sì, diversi. Sai, quando ero ragazzo, per ascoltare blues, dovevi avvicinarti per forza alla cultura nera, frequentare certi posti…procurarsi i dischi non era semplice. Oggi un giovane può ascoltare virtualmente qualsiasi cosa, da Jimi Hendrix a Ravi Shankar, a Blind Willie McTell. Ha molte più possibilità da questo punto di vista di quante ne avessimo noi, ed infatti conosco dei musicisti veramente validi. Di contro, si è affermata anche una sorta di calcificazione, di normalizzazione: oggi vai alla Berkley Music School per diventare un musicista folk, ci sono dei corsi apposta! E buffo, no? E’ sicuramente gente molto colta, ma l’idea che si possa imparare come scrivere una canzone…non so…sai, ero un cantautore prima che il termine (singer-songwriter, ndr.) fosse di uso comune, ed ora è pieno di gente che si definisce tale, e questo è un po’ sconfortante. E’ una questione di integrità, davvero. La musica è parte della mia vita spirituale, è la mia cattedrale…e cerco di non tradirla. .
Sebbene la mia generazione avesse sicuramente molte più possibilità di procurarsi musica, qui in Italia si doveva comunque soffrire per rimediare un qualsiasi CD che non fosse un minimo commerciale.
Già, non era molto diverso ai miei tempi. Quello che ha modificato tutto è stata l’era digitale, probabilmente il più grosso cambiamento sociale da quando fu inventata e diffusa la stampa: allora seguirono circa 3 secoli di totale sconvolgimento: ci furono guerre, la chiesa perse molto potere…tra le altre cose la stampa segnò la fine dell’inquisizione, dal momento che era impossibile censurare tutto…e dopo quei 300 anni nacquero delle forme di governo totalmente nuove – la repubblica, monarchie costituzionali, ecc. E credo che lo stesso succederà ora, probabilmente si svilupperanno nuovi tipi di società…d’altronde stanno cambiando drasticamente le modalità in cui le persone apprendono …tornando alla musica, oggi senti questi ragazzini di 13 anni che rifanno i licks di Albert King nota per nota, è impressionante. Tutta questa mole di informazioni, per gente come te e me, è in qualche modo schiacciante, ma per questi ragazzi è pane quotidiano, da gestire.
Eppure penso che ci siano dei limiti fisiologici, anche per le nuove generazioni. Pur potendo apprendere più velocemente, rimarranno comunque confusi dalla mole di informazioni disponibili.
Assolutamente! Ad esempio la gente parla spesso di multitasking, ma è una bugia…Puoi essere molto veloce nel fare una cosa alla volta, ma farne diverse contemporaneamente mi pare impossibile. Credo che ci sia una specie di conflitto in corso – rispetto a quante cose possiamo fare con la tecnologia attuale, e quali realmente ne possiamo sostenere. D’altronde da sempre l’essere umano cerca di estendere quel confine stesso che lo definisce uomo. Non so come ne usciremo, ma sicuramente c’è questa tensione tra i nostri limiti fisici e le mille possibilità del digitale. Personalmente ritengo che la tecnologia non sia né buona né cattiva… è semplicemente neutrale. Ovviamente tutto dipende dall’uso che se ne fa. Credo che ci aspettino tempi difficili. Ma con il passare delle generazioni le persone impareranno probabilmente a gestire queste tecnologie in modo appropriato. Mmmh…forse per un sito di musica quest’intervista sta perdendo di interesse (ride)!
Non direi proprio! Comunque va bene, torniamo alle vicende musicali…Un altro periodo molto fertile è stato quello dei primi anni ’70, specie in California. So che tu hai conosciuto e frequentato molti dei protagonisti – non solo Bonnie Raitt, ma anche Ry Cooder, i Little Feat di Lowell George…
Ah, Lowell George! Figurati, c’è mancato poco che producesse un mio disco!
Personalmente lo ritengo un musicista decisamente sottovalutato…
Lowell se ne è andato sicuramente troppo presto. Eravamo molto amici, mi manca tantissimo. Ti confesso una cosa: quando sono sul palco e sono molto stanco – magari per aver suonato diversi show di seguito – ed ho bisogno di energia, di ispirazione, dentro di me invoco Lowell: ”Lo’, devi aiutarmi!”, gli dico… Stessa cosa per Paul Butterfield – sono indubbiamente un politeista (ride)! Il solo pensiero di queste due persone mi restituisce energia. Ecco, a proposito di musicisti sottovalutati…Paul era un vero genio, musicalmente parlando, ma Lo’…tutti i musicisti della West Coast facevano riferimento a lui. Jackson Browne probabilmente non sarebbe andato molto lontano all’inizio, senza il suo appoggio. E la cosa impressionante, è che ogni volta che ascolto i dischi di Lowell con i Little Feat, o le cose che ha fatto da solo, trovo qualcosa di differente, di nuovo, che non avevo sentito prima.
Il suo album solita è estremamente vario, eppure in qualche modo ha un suo filo logico.
Era un vero maestro in studio di registrazione. Giocava realmente in un altro campionato. Abbiamo fatto dei concerti insieme, nei primissimi anni ’70, al Max’s Kansas City di New York: eravamo io, Bonnie Raitt, i Little Feat. Io suonavo prima di Bonnie, per una mezz’ora circa…e qualche volta i Little Feat mi accompagnavano; beh, l’unica cosa a cui posso paragonare quella sensazione è trovarsi di fronte ad un treno lanciato a 200 km orari di velocità. E quando Lowell suonava, che fosse in studio o in qualsiasi altra situazione…emanava un’energia fortissima. Voglio dire, Frank Zappa lo cacciò dalla sua band perché pensava fosse troppo bravo per non fare delle cose proprie! Stessa cosa per Paul Butterfield, che cantasse, o suonasse l’armonica…aveva un carisma impressionante. Quando c’era lui, tutti davano il meglio, anche in termini di idee.
George è stato uno dei chitarristi slide più bravi di sempre.
Già! Per me lui, Bonnie e Duane Allman sono i migliori. Figurati che Bonnie imparò a suonare direttamente da Mississippi Fred McDowell: Fred la scelse nel vero senso della parola, per trasmetterle la sua tradizione. Anche Ry Cooder è formidabile. Ma Lowell era una di quelle persone che semplicemente non dimentichi.
Tornando alla Paul Butterfield Blues Band: “East/West”, il pezzo che da il titolo al loro secondo album è forse il primo esempio in assoluto dell’incontro tra musica rock e suggestioni orientali, oltre la forma “canzone”. Mi sono sempre chiesto come dei giovani bluesmen ortodossi siano riusciti a creare qualcosa del genere…
Sai, la mia opinione al riguardo è abbastanza semplice: fu merito delle droghe psichedeliche! In quel periodo ne circolavano tantissime: sicuramente l’LSD, erbe varie, ed il peyote – per quest’ultimo Paul aveva una preferenza particolare. Jimi Hendrix era un bluesman abbastanza tradizionale all’inizio, e credo sia corretto sostenere che la musica che fece, e che lo rese famoso, nacque quando Jimi – già di per se un musicista eccezionalmente talentuoso e creativo – incontrò determinate droghe. Blues sotto acido, insomma. E penso che lo stesso sia successo più o meno per la Paul Butterfield Blues Band, nel periodo di “East/West”. Dalla metà degli anni ’60, per il decennio successivo, l’immaginario psichedelico ebbe una profonda influenza su tutte le arti, specialmente sulla musica. Sia chiaro, non voglio sminuire l’importanza dell’apporto creativo dei singoli: erano musicisti molto dotati, che probabilmente avrebbero superato quei confini musicali anche qualora quelle sostanze non fossero mai esistite. Diciamo che esse non furono l’unica influenza, ma certamente agirono da catalizzatore.
In tutto questo, non ti ho chiesto come – e perché – hai cominciato a suonare…
Quando avevo circa 12 anni mia madre – che da amante dell’arte fu importantissima per la mia crescita culturale – mi presentò a Josh White Sr. Josh mi prese in simpatia, e mi insegnò un sacco di cose sulla chitarra. Quando era molto giovane era solito accompagnare tutti questi grandi bluesmen ciechi…gente come Blind Lemon Jefferson, ecc. Imparò a suonare direttamente da loro. Ma non era solo un fantastico chitarrista, era un grande storyteller, un vero “troubadour”. Era molto affascinante, le donne impazzivano per lui. Esercitò una fortissima influenza su di me. Prima ancora, all’età di circa 6 o 7 anni, rimasi molto colpito da un amico di mio padre, che lavorava insieme a lui in una fabbrica di prodotti chimici. Veniva spesso a trovarci, portandosi dietro questa piccola chitarra acustica, e suonava per noi, principalmente musica folk. E vedere questa persona seduta su una sedia, che suonava la chitarra e raccontava delle storie era qualcosa di realmente magico. Un altro musicista a cui devo moltissimo è B.B.King, che adoro sia per la maniera in cui suonava che per come cantava. Ti racconto una storia divertente: una volta a Chicago, lo andai a vedere con un amico e le nostre due ragazze – avremmo avuto 18 anni – nel West Side di Chicago. Eravamo gli unici bianchi in questo posto, dove pagavi 2 dollari per un tavolo, ed ognuno si portava da bere e mangiare da casa. Un party grandioso! Ad un certo punto del suo show, B.B.King disse: “stasera abbiamo un’ospite speciale, ha solo 16 anni ma canta come un angelo!” e sul palco salì Aretha Franklin! Capisci, vedere Aretha Franklin a 16 anni, molto prima che diventasse famosa. Non avevo mai ascoltato nulla di simile, era incredibile!
Con B.B.King facesti anche dei tour, se non sbaglio.
Già, aprii per lui diverse volte. Quando il mio manager mi propose la cosa, dissi “assolutamente no, io sono solo un cantautore…voglio dire, so suonare il blues, credo di averne i titoli…ho persino vissuto a Chicago (ride)…ma non è cosa per me!”. Ma il mio agente insisteva: “dovrai suonare semplicemente qualche vecchio classico, roba come Goodnight Irene, Key To The Highway…e poi le tue canzoni”. E mi convinse, anche se pensavo che il pubblico mi avrebbe odiato. Invece furono fantastici, e lo stesso B.B.King mi introdusse sul palco diverse volte. Era forse la persona più generosa che abbia mai incontrato, in questo ambiente. Quell’esperienza per me fu come fare un dottorato – musicalmente parlando: dopo il mio show mi fermavo a studiare B.B.King dai lati del palco, osservando quello che faceva, la maniera in cui gestiva tutto. Conosceva tutti i membri della crew, dai musicisti ai roadie che trasportavano gli amplificatori, era ovunque.
Su cosa stai lavorando attualmente?
Ci sono almeno tre progetti letterari che voglio portare a termine. Come ti dicevo, sono venuto qui in Toscana proprio per lavorare senza interferenze musicali…Beh, a dir la verità, da quando sono qui ho comunque scritto tre canzoni (ride!). Mi sto rassegnando all’idea che, per quando avrò finito il libro, avrò anche il materiale per un nuovo album! Scherzi a parte, al momento sto lavorando ad una raccolta di storie brevi, per la maggior parte inedite. Non so alla fine quante saranno, forse una trentina. E un po’ come si diceva prima a proposito dell’album solista di Lowell George, canzoni molto diverse ma in qualche modo connesse: anche le mie storie sono estremamente varie. Ci sono delle fiabe brevi, dei racconti post-moderni, cose che si potrebbero quasi definire fantascienza. E man mano che le finisco, inizio a vedere uno schema comune, una connessione che le unisce. Non è una cosa intenzionale, ma sta succedendo. Alcune di queste storie hanno più di 15 anni, non ricordavo nemmeno di averle scritte. Infine, vorrei portare a termine un progetto rimasto incompiuto. Diversi anni fa mi commissionarono un saggio di antropologia sul mito del “trickster”, l’Ingannatore: una figura mitologica che sembra ricorrere praticamente in ogni cultura: in alcune parti dell’Africa è chiamata Anansi ed è rappresentata dal ragno, mentre tra i nativi americani prende la forma del coyote…non so se ne hai mai sentito parlare.
Credo di sì: nella mitologia nordica un personaggio simile dovrebbe essere Loki.
Esatto! E’ un mito presente ad ogni latitudine…insomma, ci sono delle storie bellissime, che mi chiesero di raccogliere e mettere insieme. Ad un certo punto, però, l’editore cominciò ad interferire, a darmi troppe indicazioni su come avrei dovuto farlo…entrammo in disaccordo e non se ne fece nulla. Ci lavorai comunque moltissimo.
Sembra quasi un approccio che avrebbe utilizzato Jung, la ricerca degli archetipi…
E’ vero, c’è molto di junghiano nel metodo. E sarebbe veramente un peccato che quel materiale rimanesse inedito!
Pietro Rubino
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