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Per una volta non sarà a fianco del Boss. Anzi avrà l’onore di essere la principale attrazione sul palco. Little Steven, all’anagrafe Steven Lento poi Van Zandt (cognome del secondo marito della madre), si prende una vacanza dalla E Street Band di Bruce Springsteen e dalle apparizioni come attore in serie Tv, per circondarsi di un gruppo di musicisti sotto il marchio di Disciples of Soul. Insieme a loro porta in tour l’album Soulfire e sarà in unica data italiana a Pistoia Blues il prossimo 4 luglio. Un ritorno in Toscana dopo che nel 2012, prima del concerto con Springsteen a Firenze, fu insignito di un riconoscimento a Pisa grazie alle sue origini italiane. «Mi ricordo bene la cerimonia _ spiega Little Steven _. Adesso a chi mi chiede quanto mi senta italiano rispondo che lo sono al 100%»
Come nasce il progetto che ha portato al disco?
«E’ stato un caso. Eravamo tornati dal tour europeo quando il promoter mi disse che sarebbe tornato a Londra per il Blues Festival nella capitale inglese, proponendomi di suonare in quella occasione. Allora ho ripreso ad ascoltare vecchi dischi per recuperare un repertorio di tanti anni fa. Poi ho portato le canzoni nuovamente negli Stati Uniti e in Australia e quindi ho deciso di incidere un album che avesse questa voglia di recuperare il passato».
Quanto è durata la lavorazione?
«Insieme ai miei musicisti abbiamo inciso il disco in poco tempo, sei settimane circa nel mio studio di New York. Sono contento del risultato perché trovo questo disco la perfetta introduzione al mio lavoro per chi non mi conosce. Ci troverà tante cose: il blues, il jazz, il doo wop. Ma anche James Brown ed Ennio Morricone».
Il titolo del suo album contiene la parola “soul” così come il nome del suo gruppo. Quanto conta per lei questo genere, in pratica una musica ufficiale del suo paese?
«Mi ritengo fortunato di essere cresciuto in un periodo dove radio e televisioni trasmettevano tanta musica. Inoltre erano gli anni della “British Invasion”. Quindi gli show televisivi di quell’epoca vedevano Beatles e Rolling Stones alternati con i nostri Marvin Gaye e Smokey Robinson. E gli stessi Beatles e Stones ascoltavano a loro volta i grandi del soul, tanto che nei loro primi album c’erano molte cover di autori americani. E’ quindi un genere importante nel mio linguaggio musicale, anzi direi essenziale».
Ha detto prima di sentirsi italiano al 100%. C’è qualcosa dello spirito della nostra nazione che fa parte del suo modo di affrontare la musica?
«Non lo so se questo ha aiutato. Devo dire che sicuramente mi hanno favorito le circostanze. Infatti non avevo particolare abilità per la scuola, lo sport o la politica. Ma per suonare e fare musica si».
Trent’anni fa lei incise Sun City, un brano contro l’apartheid in Sudafrica nel quale coinvolse tanti colleghi. Oggi i tempi sono cambiati: da una parte alcuni diritti sono stati conquistati mentre dall’altra si vogliono creare barriere tra nazioni. Cosa ne pensa?
«Tutte le arti, non solo la musica, aiutano a illuminare la vita e a far riflettere. Tanti anni fa con Sun City ero uno dei pochi a voler denunciare situazioni difficili. Adesso è quasi consequenziale occuparsi di ciò che accade intorno a noi. Con il mio nuovo repertorio posso tranquillamente lasciare il compito ad altri senza sentirmi colpevole».
Cosa ci dovremo aspettare dal suo concerto?
«Sarò con una banda di 15 elementi, una sezione fiati, tre ragazze, due chitarre, la ritmica. Un suono potente per tornare alle mie origini, al suono creato con Southside Johnny quando il rock incontrò il soul. Il repertorio sarà quello dell’ultimo album, ma ci sarà anche tanto altro».
Michele Manzotti
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