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E’ uno dei grandi operai del Rock’n'Roll. Uno dei simboli della generazione di ferro che tra i Sessanta e i Settanta del secolo passato ha passato la vita tra sale discografiche e, soprattutto, palcoscenici. Ian Hunter ha legato prima il suo nome all’esperienza Mott The Hoople (caraterizzati dalla grande hit All the Young Dudes) e poi a una lunga esperienza solista partita 42 anni fa. L’artista inglese con la sua Rant Band torna in Italia al Bloom di Mezzago (Monza Brianza) lunedì 16 ottobre, a quasi dieci anni dalla sua data all’Alcatraz di Milano.
Le cose sono cambiate negli ultimi tempi nella musica e nella discografia. Le piace ancora stare in questo ambiente?
«Sinceramente non faccio parte del music business attuale, ma soprattutto non intendo esserlo in alcun modo».
Quali sono le caratteristiche del suo repertorio? O meglio farà dal vivo un mix tra passato e presente?
«Sì, sarà così. Prenderò brani dei Mott The Hoople e li eseguirò alternati con quelli della mia carriera solista. Sia quelli più nuovi sia altri dei primi anni di attività».
Sta pensando a un nuovo album?
«Non programmo mai niente. Ciò che deve arrivare, alla fine arriva».
I Mott The Hoople ono stati una parte importante nella sua carriera. Quali sensazioni ha provato all’Hammersmith di Londra nel 2009 quando vi siete trovati insieme?
«E’ stato molto bello essere con loro, ma c’era alla base unicamente la voglia di divertirsi. Sono contento di averlo fatto anche perché Pete Watts and Buff Griffin sono scompars successvamentei».
L’ultima domanda riguarda David Bowie scomparso a inizio 2016, quanto è stato importante non solo per l’esperienza Mott ma anche per il suo modo di scrivere?
«Lo stile di Bowie non è stato assolutamente un modello per le mie composizioni, tanto che l’ispirazione mi è sempre arrivata da Bob Dylan. Ma Bowie ha comunque cambiato in meglio la sorte dei Mott The Hoople portandoli al successo, ed è stato bello lavorare con lui. Era generoso, anche per averci concesso il suo tempo».
Michele Manzotti
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