Nella foto Tom Petty al Summer Festival di Lucca, 29 giugno 2012
«Ho una nipote e vorrei stare con lei il più possibile. Non voglio più passare la mia vita in giro». Così pare abbia affermato Tom Petty, intervistato da Rolling Stone USA, qualche giorno prima della sua improvvisa morte, avvenuta un mese fa, il 2 ottobre. Una dolce esigenza da nonno, che alla “giovane” età di quasi 67 anni non si addice allo stereotipo della rock star che il mito vorrebbe tramandarci. E in effetti il musicista statunitense non si è mai atteggiato a divo, anzi è sempre sembrato un uomo schivo, mai alla ricerca della “stranezza” per fare notizia, più legato al mondo “mainstream” che a quello “glamour”.
Una normalità comune, avvalorata anche da un piccolo anedotto riportato nell’intervista che Corrado Ori Tanzi (pubblicata su suo blog https://8thofmay.wordpress.com/) fece qualche anno fa al giornalista e scrittore Mauro Zambellini: «Dovevo fare un intervista a Tom Petty al Four Season di Milano. Ero uno degli ultimi della lista di cronisti accreditati quel giorno. Gli portai i vinili dei suoi dischi che avevo nella mia collezione per farglieli firmare e furono loro a dettare la linea dell’intervista. Ogni tanto faceva capolino il suo road manager che, di volta in volta con tono più insistente, gli diceva di darci un taglio perché dovevano partire per Parigi. Quando per l’ennesima volta entrò, Tom gli disse a brutto muso: “Senti, lui ha comprato tutti i miei dischi e non sarai tu a decidere quando l’intervista finirà, capito?”». Pochi si sarebbero comportati in questo modo!
Poi è anche vero che in Italia la sua fama non ha mai mosso folle oceaniche, e molti dei suoi fans (di cui anch’io faccio parte) ebbero modo di conoscerlo quando lo videro al fianco di Bob Dylan, George Harrison, Jeff Lynne e Roy Orbison, in quella magnifica avventura che furono i due dischi incisi sotto il nome dei Traveling Wilburys. Era il 1988 e Petty aveva già inciso poco meno di una decina di album, tutti con i fedeli Heartbreakers, band favolosa che lo accompagnerà per tutta la sua carriera, fino a pochi giorni prima della sua morte.
Un altro momento di estrema popolarità Petty lo conquistò tre anni dopo, nel 1991, quando il brano Into the Great Wide Open (singolo estratto dall’omonimo album) divenne un videoclip di successo. Diretto da Julien Temple, come fosse un piccolo film con la trama della canzone narrata in forma di storyboard, fu interpretato da Johnny Depp, Faye Dunaway, Gabrielle Anwar e dallo stesso Petty, dove il protagonista, un ragazzo venuto dalla provincia statunitense arriva al successo con una brano, e la gloria conquistata lo fa divenire un ribelle attaccabrighe e senza più valori. La caduta verso l’“inferno” lo farà redimere, facendogli capire che la fama non è tutto e che bisogna sempre ricominciare da capo. Questo video permise a Petty di farsi conoscere anche a un pubblico meno legato alla musica rock pop statunitense, anche grazie ai passaggi continui sull’emittente televisiva Videomusic.
Quello fu però un unico episodio di grande fama, che però gli permise di allargare il numero dei suoi fans. Negli anni successivi non si risparmiò, andando in giro per concerti e pubblicando molti dischi, tra i quali vorrei ricordare gli album Wildflowers (1994), Echo (1999) e Mojo (2010). Negli ultimo anni, oltre a girare in tour con i fedelissimi Heartbreakers, rifonda la sua vecchia band i Mudcrutch (nata nel 1970 e che comprendeva già alcuni elementi degli Heartbreakers) pubblicando due album: il primo che prende il nome dal gruppo, nel 2008, e il secondo intitolato solo 2, nel 2016, che facevano capire che la sua vena creativa non si era ancora inaridita.
Riccardo Santangelo
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