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Il concerto di Dave Douglas a Roma ha inaugurato un lungo 2018 che lo vedrà diverse volte nel nostro paese , cosa assolutamente non nuova dato che il trombettista ha stretto forti amicizie nel nostro paese, primo fra tutti Enrico Rava , In questa occasione Douglas presentava il suo quintetto, con il quale ha realizzato tre dischi: ”Be Still“ , “Time Travel“ e “Brazen Heart”: sempre alternando varie formazioni Douglas ha indirizzato questo quintetto verso una forma di improvvisazione moderata dove gli slanci solisti sono sostenuti da linee talvolta riconoscibili, grazie all’attento lavoro della sezione ritmica. Ad affiancarlo quattro musicisti giovani dove spicca soprattutto la contrabbassista Linda Ho , già vista a Roma con i Soundprints di Joe Lovano e dello stesso Douglas e con Pat Metheny con il quale ha stretto oramai un sodalizio solido. Gli altri, anche se con un curriculum leggermente meno sfavillante, altrettanto padroni della filosofia post –bop del poliedrico Douglas: Jon Irabagon al sax, Matt Mitchell al piano e Rudy Roystone alla batteria. Il leader dell’ensemble, di fronte ad una platea non foltissima ma calda e fidelizzata, ha sciorinato i brani dei tre album con particolare attenzione agli ultimi due visto che il primo viveva soprattutto di cover realizzate con l’ausilio di una cantante folk Aoife O’Donovan, molto interessanti ma al di fuori del contesto usuale del quintetto. Dave Douglas ha aperto il concerto con brani più oscuri chiudendo un set lungo quasi 2 ore con aperture liriche sicuramente apprezzabili dal punto di vista melodico , con venature di musica progressiva che si spingeva però oltre le conquiste del jazz/rock post Davis : Cosi si susseguivano titoli come “Going Somewhere with you“ e “Middle March“, appunto dal primo album , “Little feat“ e “Time Travel“ dal secondo, fino a “Lone Wolf “, “Hawaian Punch e “Variable Corrent“ dall’ultimo “Brazen Heart “. Da leader colto e smaliziato Dave ha ammorbidito a dovere un pubblico già ben predisposto con battute relative a Trump e alla sua amministrazione e con omaggi ad amici italiani come il pianista Franco D’Andrea, più volte affettuosamente citato. Resta da dire come Douglas riesca ogni volta a sorprendere con progetti di forma più varia e nel contempo a regalare perizia e profondità a tutto: da Uri Caine a Shigeto , dall’acustico alle sperimentazioni elettroniche passando per il folk , il trombettista del New jersey continua ad aprire porte senza scivolare , senza mai far gridare all’ovvio. Forse niente di rivoluzionario ma dietro le pieghe dei suoi suoni sempre si scorge dell’altro.
Ugo Coccia
Tagged Dave Douglas, jazz, Roma