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Interviste

Dany Franchi: “Così ho conquistato l’America”

27 maggio 2018 by Stefano Tognoni in Interviste

 www.danyfranchi.com

Il genovese Dany Franchi, si sta affermando come uno dei nomi più interessanti del panorama blues mondiale. Malgrado la giovane età, ha già pubblicato due positivi ed interessanti cd solisti, Free Feeling nel 2012 e I Believe nel 2014. La recentissima uscita del suo terzo progetto, Problem Child, registrato negli USA, con un cast d’eccezione, è l’occasione giusta per intervistarlo.

Dany, presentati ai nostri lettori. Quando è nata in te la passione per la musica ? Qual è il tuo background artistico e in che modo ti sei avvicinato al blues?

Mi ricordo di essere stato attratto dalla musica fin da piccolissimo, andavo in chiesa la domenica con i miei genitori e vedevo suonare la chitarra da alcune persone del mio paese, il mio sogno era imparare per suonare con loro e così feci, avevo circa 8 anni. Dopo qualche anno passai alla batteria, che rimane sempre il mio amore segreto e che continuo a suonare appena ho l’occasione. Iniziai a prendere lezione da Alessandro Pelle, alla prima lezione gli dissi che suonavo anche la chitarra e che ero un fan di Eric Clapton allora mi disse “dovresti venire a sentirmi una volta, suono con un chitarrista molto bravo, si chiama Paolo Bonfanti”. Così, insieme ai miei genitori, andammo a sentire Paolo in quel di Arenzano, quella sera si esibiva anche la storica band Big Fat Mama e Paolo aveva appena realizzato il suo album americano “Gamblers”. Quella sera rimane una delle sere più belle della mia vita, scattò qualcosa dentro di me.

Che percorso didattico hai seguito?

Ho studiato con vari insegnanti nella mia città poi intorno ai 15 anni, grazie al supporto dei miei genitori, mi iscrissi al CPM di Milano dove mi diplomai col massimo dei voti nel 2008, ero l’allievo più giovane diplomato, all’epoca avevo 18 anni. Poi ho continuato un po’ gli studi con Paolo Bonfanti e Alessio Menconi per poi sviluppare il mio playing da solo.

Ancora giovanissimo, eri il chitarrista dell’allora emergente Zibba, decidere di “metterti in proprio”, suonando blues, è stata una scelta coraggiosa, ma con il senno di poi azzeccata.

Iniziai con Zibba a 19 anni, era in cerca di un chitarrista così chiamò Bonfanti per sapere se aveva un allievo talentuoso da raccomandare e Paolo fece il mio nome. Grazie a Zibba ho avuto l’opportunità di intraprendere la carriera professionale calcando palchi in tutta Italia e partecipando a importanti manifestazioni e programmi televisivi. La cosa che ho imparato di più da lui è come gestire il proprio progetto musicale e credere fortemente in esso, Zibba è stato una forte fonte d’ispirazione. Dopo circa tre anni con lui decisi di voler intraprendere la carriera solista, non fu una scelta facile, avevo 21 anni ed ero appena andato a vivere da solo ma sentivo dentro di me di dover seguire questa intuizione.

Le tue doti ti hanno permesso di conquistare la stima di celebri artisti, dapprima in Italia, e poi all’estero In che modo sei riuscito ad arrivare a suonare negli USA e ad ottenere un lungo permesso di lavoro che ti permette una maggiore libertà di azione?

Oltre al talento in sé, ciò che fa davvero la differenza se si vuole intraprendere la carriera musicale a livello professionale è saper instaurare e mantenere le relazioni. Era il 2011, Marco Traverso del Raindogs di Savona organizzava un festival nella riviera del ponente ligure e mi diede la possibilità di aprire il concerto di Sean Carney, quella sera divideva con noi il palco anche Guitar Ray con i Gamblers, tutto iniziò da li. Sean sentì il mio set e si complimentò, rimanemmo in contatto e mi incoraggiò nel lavorare al mio primo disco in cui poi anche lui prese parte. Da lì feci diversi concerti con Sean, anche Guitar Ray mi dimostrò sempre grandissimo sostegno dandomi la possibilità di aprire alcuni concerti e insegnandomi molto sul mondo del Blues. Nel 2014 volai con la mia band in Ohio per registrare il mio secondo album “I Believe” appunto prodotto da Sean, quella fu la mia prima esperienza americana. Nel gennaio 2016 Gianluca Diana mi propose di rappresentare Mojo Station all’IBC di Memphis, nonostante non sia un sostenitore dei concorsi in ambito musicale mi sembrò un’ottima vetrina così accettai. Fu un’esperienza interessante e arrivai nelle semifinali. Durante i giorni dell’IBC stavo suonando a una jam all’Hard Rock Cafè di Beale Street e Don Ritter della Category5 Amps di Dallas entrò a sentire. Sceso dal palco mi chiese se venivo dal Texas siccome il mio sound gli ricordava il sound di Oak Cliff (quartiere leggendario di Dallas da cui i fratelli Vaughan provengono), io risposi che ero italiano e lui rimase molto sorpreso, mi invitò a partecipare al Dallas Guitar Festival. Così nel maggio 2016 mi trovai al DGF sul palco con i alcuni tra i migliori chitarristi del mondo (Robben Ford, Eric Gales, Sonny Landreth e altri). Sono sempre stato un fan di Anson Funderburgh e avevo avvisato Anson su facebook che avrei suonato al festival, mi venne a sentire e rimase colpito. Pochi giorni dopo ci incontrammo a pranzo io Anson e Don e mi proposero la produzione del mio nuovo disco, un sogno che si avverava! Don con la sua compagnia di amplificatori è il mio sponsor negli USA che, insieme a tutti i miei crediti professionali, mi ha permesso di ottenere un Visto artistico O1.

Parlaci del tuo recentissimo Problem Child, prodotto da Anson Funderburgh. Come è nato il tuo disco, cos’è che l’ha ispirato e qual è il motivo che ti ha spinto a intitolarlo così?

E’ un disco davvero importante per me, una svolta nella mia carriera. Non capita spesso che un europeo sia prodotto da un team di questo livello, proprio per questo motivo ho cercato di fare del mio meglio scrivendo canzoni originali ma allo stesso tempo cercando di rendere omaggio alla tradizione. Il titolo è preso dall’ultimo brano del disco, si ispira ad una vicenda che mi ha toccato in maniera molto vicina e racconta di quanto gli anni dell’adolescenza possano essere complicati per alcune persone, specie se si ha una sensibilità particolarmente accentuata e una storia famigliare complicata.

Vuoi presentarci i musicisti che sono coinvolti nella registrazione?

Il disco è stato registrato ai Wire Recording Studios di Austin, Texas, sono onorato di aver collaborato con Jim Pugh al piano e B3 (Robert Cray, Etta James ecc), Wes Starr alla batteria, (J. Vaughan, Anson Funderburgh ecc) Nate Rowe al basso (Redd Volkaert), i Texas Horns e Greg Izor all’armonica. Naturalmente Anson Funderburgh e Andy T assistente di produzione, Stuart Sullivan (leggendario ingegnere del suono e Grammy Winner). Un team di altissimo livello fatto da musicisti e persone incredibili, sono felice che molti di loro siano diventati cari amici dopo questa esperienza in studio.

Dal primo ascolto risulta subito evidente la differenza di sonorità rispetto ai precedenti lavori, e l’estrema professionalità, maturità e qualità del prodotto. Inoltre ci sono maggiori influenze con il Soul e R&B. A cosa è dovuto questo cambiamento ?

Sono costantemente in cerca del mio sound, sono un grande fan della Soul music degli anni 60’ e in questo lavoro emergono in maniera evidente molte delle mie influenze musicali più rilevanti. Personalmente sono in continuo cambiamento in cerca della mia dimensione indipendentemente da un particolare genere musicale.

Come hai scelto le uniche tre cover che ne fanno parte?

Data l’opportunità di lavorare con alcuni dei musicisti Blues migliori al mondo ho voluto scegliere tre cover del repertorio tradizionale e omaggiare alcuni dei miei idoli. La scelta è ricaduta quindi su Sensation di Freddy King, Big Town Playboy di Eddie Taylor e Everything Gonna Be Alright di Magic Sam (Willie Dixon)

Stai tenendo molti concerti e partecipando a prestigiosi festival e Jam. Con quali artisti hai avuto la possibilità di suonare?

Soprattutto negli ultimi due anni ho avuto modo di suonare davvero in giro per il mondo, la cosa che mi rende felice è di averlo fatto a mio nome con la mia musica, i miei brani. Purtroppo noi europei siamo spesso visti come “quelli che accompagnano l’americano di turno”, purtroppo questo pensiero è insito soprattutto in alcuni tra gli addetti ai lavori. Ho lavorato sodo per cercare di andare oltre e poter avere il mio nome in cartellone al fianco degli americani suonando la mia musica, fortunatamente sta funzionando e ne sono davvero onorato, il fatto di essere in America ed essere considerato al pari di molti di questi artisti è la soddisfazione più grande. Ho avuto il piacere di dividere il palco con molti musicisti incredibili, ricordo in particolare alcuni miei eroi musicali: Kim Wilson, Anson Funderburgh e J. Vaughan (ma solo strimpellando insieme sul divano di casa sua!!!)

Come accolgono “un ragazzo genovese”, questi mostri sacri? E come ti accoglie il pubblico statunitense?

Ciò che adoro di più degli artisti e del pubblico americano è che badano solo esclusivamente al talento e al merito, non importa come ti chiami o da dove vieni, se vali ti danno una chance. Ho sempre incontrato persone meravigliose.

Hai qualche episodio particolare che vorresti raccontarci?

Ne avrei molti, in generale mi colpisce sempre l’ammirazione che hanno nei confronti di chi rischia e ha un obbiettivo, di chi lavora sodo seguendo i propri sogni, se possono, e se vedono un valore fanno di tutto per aiutarti.

Vuoi parlarci anche della strumentazione che usi abitualmente sul palco? (chitarra, ampli, eventuali effetti)

Uso spesso un amplificatore Category5 siccome è il mio sponsor, quando non ho la possibilità di farlo spedire al backline del festival o club in questione uso un Fender Super reverb o un Fender Deluxe reverb, solitamente non uso pedali, solo la mia Stratocaster e ampli.

Che differenze ci sono, tra il mondo musicale italiano con cui hai avuto a che fare, e quello che stai incontrando negli USA?

Ci sono ottimi musicisti ovunque, ovviamente il mondo musicale americano non è paragonabile a quello italiano in termini di opportunità. Una grande differenza è l’attenzione nei confronti del talento e la meritocrazia che c’è qua in America e che purtroppo, non so esattamente per quale motivo, non è allo stesso livello in Italia, non solo nella musica purtroppo. Si è ancora un po’ vittima degli stereotipi, spero si possa rimediare a questo in qualche modo e se nel mio piccolo posso fare qualcosa sarebbe un piacere per me farlo. Colgo l’occasione per ringraziare sinceramente tutti quelli che in Italia mi hanno dato un’opportunità e hanno creduto in me, anche tu Stefano che sei stato tra i primi a fare il mio nome nell’ambiente!

Tu sei davanti ad un bivio importate, nella tua vita. Visto che dovrai risiedere molti mesi all’anno negli USA. È stata una scelta difficile?

Dover lasciare il proprio paese i propri affetti per seguire i propri sogni non è mai una scelta facile ma, come dicono gli americani, “sometimes you got to do what you got to do”. Comunque ho l’immensa fortuna di poter fare ciò che amo di più nella vita e comunque cerco di fare avanti e indietro tra Europa e America, tutto in base al lavoro.

Cosa si aspetta Dany Franchi dal suo futuro musicale?

Sono molto riconoscente per quello che ho e spero solo di poter andare avanti così riuscendo a raggiungere più persone possibili con la mia musica cercando di abbattere tutte le barriere che mi si possano presentare davanti. Negli ultimi mesi ho ricevuto diversi messaggi o chiamate da giovani musicisti chiedendomi consiglio su come muoversi per raggiungere i propri obbiettivi professionali, partendo dal fatto che ciò mi onora profondamente e che non ho assolutamente una risposta precisa, mi piacerebbe in futuro poter fare qualcosa per i giovani talenti o essere fonte d’ispirazione per questi.

Stefano Tognoni

 

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