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Steve Winwood & Steely Dan, 3Arena, Dublino, 28 febbraio 2019

www.stevewinwood.com
www.steelydan.com

Gli Steely Dan si sono esibiti nella bellissima 3Arena di Dublino per l’ultima delle cinque date di un brevissimo tour di fine inverno prima di cominciare una residency a Las Vegas nel prossimo aprile.

Come in tutte le altre date di questo minitour, l’apertura è stata affidata a Steve Winwood il quale, sulle note di I’m a Man (Spencer Davis Group) , avvolge la sala col calore e la morbidezza del suo Hammond.

La formazione di Winwood è quella rodata da anni di tour, che fonda il suo sound soprattutto nella chitarra del brasiliano Jose Neto e nella batteria di Richard Bailey. Le canzoni sono quelle, le sue, quelle cioè di una favolosa e lunghissima carriera cominciata con lo Spencer Davis Group, continuata con I Traffic, i Blind Faith e poi approdata in una lunga ed importante carriera solista.

Lo show tuttavia non parte in maniera lineare ed a volte si avverte una certa stanchezza nei musicisti, cosa che rende opaca qualche esecuzione. Ma è dopo Them Changes di Buddy Miles, quando Winwood lascia l’organo Hammond per imbracciare la chitarra e dar vita alle prime note di Can’t Find My Way Home, che si palesa la chiave di lettura di questo breve show di apertura: quando ti chiami Steve Winwood, quando ti ritrovi a più di settant’anni ad aver scritto certe canzoni che hanno costituito e costituiscono ancora oggi un vero anthem per più generazioni, allora saranno loro – le canzoni – a prendere vita sul palco.

E’ solo questione di tempo e così è stato.

L’esecuzione di Can’t Find My Way Home e di Had to Cry Today, canzoni simbolo di quella straordinaria avventura chiamata Blind Faith, ha rimesso immediatamente le cose al suo posto e cioè in quel crocevia di ricordi, sogni, lacrime ed emozioni dove tutti noi spettatori eravamo già seduti in attesa che le note – quelle note – ci raggiungessero come sempre hanno fatto.

The Low Spark of High Heeled Boys lascia le originali sfumature psichedeliche per diventare torrida, sinuosa e dall’accento sudamericano da sempre tanto caro a Winwood.

Dear Mr. Fantasy è il classico dei Traffic col quale Winwood prende la sua fender e guadagna nuovamente il centro del palco accompagnandoci, col suo lungo e avvolgente finale, verso la fine dello show che si conclude con le note di Gimme Some Lovin.

Cubano Chant di Ray Bryant introduce gli Steely Dan sul palco ed è subito Bodhisatva e la prima domanda che ci si pone è “cosa raccontare di uno show degli Steely Dan che non si sia già precedentemente detto o scritto?”. La loro presenza sul palco è professionale, senza sbavature, tutta essenza. Ma qualcosa da dire c’è sempre, soprattutto stavolta in cui, nell’economia generale del suono si avverte precisa e dolorosa l’assenza di Walter Becker.

Ma con l’andare avanti delle canzoni, capiamo bene che ciò che per tante band potrebbe essere stato un insormontabile ostacolo, per Fagen è una nuova sfida. Gli Steely Dan sono un gruppo da leggere nelle sfumature e dopo una manciata di canzoni appare chiaro il nuovo ordine di scuderia: la band riesce a modulare il proprio suono e ad essere di volta in volta orchestra jazz, soul band, funky machine ed i momenti più interessanti sono quelli in cui il piano elettrico di Fagen dialoga con le tastiere di Jim Beard creando interessantissimi sprazzi di improvvisazione.

Ebbene si, improvvisazione.

Tonight, I’m fine” grida Donald Fagen e, contro ogni previsione e tradizione, chiede al pubblico di scegliere la prossima canzone così che, tra le risate e lo stupore degli stessi musicisti, viene eseguita un’insperata Rikki don’t loose that number .

Kid Charlemagne e Peg seguono, nel loro funky, la stessa scia ed in questi casi la band mostra i nervi, diventa piacevolmente indisciplinata (chi l’avrebbe mai detto di uno show degli Steely Dan!) ed il basso di Freddie Washington affronta il groove in maniera scostumata schiaffeggiandolo a suon di slap per poi ricomporsi nel caldo ed ovattato suono di marca Crusaders per una Keep on that same old feeling, con la quale vengono presentati uno ad uno i musicisti e si introduce il gran finale della serata con l’immancabile My Old School e Reelin in the Years.

Well done, Mr. Fagen, anche stavolta gli sguardi del popolo dei DanFan sono soddisfatti. Si torna a casa con l’ennesima lezione di stile ed eleganza e con il sotteso suggerimento che laddove non può arrivare la perfezione, ebbene, è il caso di lasciare un po’ le briglie piacevolmente sciolte e di godere di una sana e nervosa indisciplina. Del resto l’amore per gli Steely Dan non è l’amore per una o più canzoni: è molto, molto di più. E’ letteratura, è cinema. E’ Chandler che mette un abito disegnato da Ellington. E’ l’ultimo bicchiere bevuto in un topless bar ed è il nostro eterno hangover passato a vedere la vita con estremo disincanto. E’ quell’insieme di cose che al termine di un concerto ci fa salutare l’un l’altro come se fossimo tutti dei vecchi amici, che ci fa sorridere a chi non comprende perché, come si dice nell’ambiente,  it’s not that you don’t like Steely Dan, it’s that you don’t get it” .

Ed anche questa notte we’ve got it

Giovanni de Liguori

 

 

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