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Foto in alto (c) M3B GmbH / Jörg Sarbach
Una vera e propria invasione da nord. Culturale e pacifica, ovviamente, ma di invasione si tratta. Che assume anche tratti particolari, di palcoscenici pieni di persone, di strumenti etnici accanto a quelli tradizionali. Sono 177 in totale i musicisti della Norvegia, nell’ambito di 27 formazioni, che sono presenti all’edizione 2019 di jazzahead!, la manifestazione che raccoglie il meglio del jazz internazionale a Brema. Il paese scandinavo è presente in pompa magna anche perché non solo è il partner dell’edizione di jazzahead! ma anche delle prossime scadenze della Berlinale e della Buchmesse di Francoforte.
Come ogni anno al paese partner sono affidati gli otto showcase inaugurali della manifestazione. Ne abbiamo scelti tre, in una serata che ha visto un afflusso incredibile di pubblico. Due di essi hanno una caratteristica in comune: quella del recupero di una tradizione popolare che si innesta nel linguaggio jazzistico. Un folk che nelle sue caratteristiche, melodie struggenti, danze in tempo ternario, lo apparenta alle non distanti isole britanniche. Il gruppo di Frode Haltli Avant Folk (foto 2) dieci elementi, ne è un esempio. Ma al tempo stesso l’ensemble del virtuoso fisarmonicista presenta cellule ritmiche e melodiche che rompono equilibri legati alla cantabilità e all’armonia. Una prassi differente a quella dell’ensemble del sassofonista Karl Seglem (foto 3), sette musicisti, il cui linguaggio folk serve come base per improvvisazioni, schemi melodici che si ripetono, elettronica che si accompagna a strumenti come il violino Hardanger, dal manico di madreperla, e il corno vichingo.
Totalmente differente, e sorprendentemente efficace, è stata la proposta Acoustic Unity del trio del batterista Gard Nilssen (foto 4). Un bop contemporaneo e irriverente dove i tre musicisti scompongono e ricompongono linee melodico-ritmiche con maestria tecnica e idee di grande efficacia. Il sassofonista André Roligheten si diverte a suonare insieme sax soprano e tenore alla Roland Kirk, mentre il contrabbassista Ole Morten Vågan è un funambolo che piega le quattro corde al suo volere con soluzioni geniali. Tutto questo con tamburi e piatti di Nilssen in un apparente caos dove nulla è però lasciato al caso. Da seguire e riascoltare.
Per conoscere meglio il jazz norvegese abbiamo parlato con Roberto Bonati, direttore artistico di Parma Frontiere, che ha anche realizzato album con musicisti dal paese scandinavo.
C’è qualcosa che caratterizza il jazz norvegese rispetto a quello degli altri paesi scandinavi?
Non credo si possano fare delle dichiarazioni tranchant in un senso o in un altro, in ognuno di questi paesi, come del resto anche da noi, ci sono movimenti differenti, estetiche diverse che coesistono. In generale il jazz norvegese e la scuola, il pensiero che sta all’interno della didattica e del fare musica è animato da una forte tensione verso il nuovo. C’è una grande disponibilità verso la sperimentazione e l’atteggiamento dei musicisti verso altri musicisti e del pubblico verso i musicisti non è a priori critico come succede in altri posti. I musicisti sembrano avere un grande rispetto gli uni verso gli altri e questo fa sì che la possibilità di una sperimentazione e di una ricerca non venga frenata sul nascere da un ambiente che manifesta diffidenza. Mi pare che in Svezia e in Danimarca ci sia più una tendenza verso il linguaggio e la tradizione americana ma anche qui il panorama è molto vario e plurale.
A quali fonti di ispirazione si sono rivolti maggiormente i jazzisti norvegesi?
Senz’altro i contatti con i musicisti americani negli anni 60 e 70 sono stati importanti e fondamentali. La presenza di George Russell in Norvegia ha dato la paternità a un modo speciale di intendere il jazz. E così è stato per il quartetto europeo di Jarrett. E’ interessante analizzare i repertori di quel periodo e vedere come alcuni brani come Hasta Siempre o Witchi-tai-to fossero presenti nei dischi degli Oregon, di Jan Garbarek, di Bobo Stenson. C’era un grande movimento tra gli Stati Uniti e la Norvegia. Anche l’attenzione al repertorio folkloristico e alla musica popolare tradizionale norvegese è stata fondamentale per la creazione di un linguaggio personale e originale. E’ interessante vedere come anche da noi alcuni musicisti che hanno segnato la storia, come Gaslini e Trovesi, si siano rivolti al repertorio popolare e/o antico italiano.
C’è un musicista o un gruppo imprescindibile del passato, anche recente, di quella scena? E ce ne è uno di oggi da tenere d’occhio?
E’ difficile individuare un solo musicista, Ci sono molti musicisti importanti, sicuramente Jan Garbarek, con lui Arild Andersen, Terje Rypdal, Jon Christensen, Sidsel Endersen ma la lista non finisce qua ovviamente.Tra i giovani, ma qui entra in gioco un gusto personale, Thomas Stronen ha riunito alcuni giovani interessanti, Hakon Aase, Ayumi Tanaka, voglio anche ricordare Mathias Hagen a cui abbiamo conferito il premio Gaslini 2018. E poi molti altri giovani, il batterista Stian Eismann, molto giovane ma credo che potrà dire qualcosa di interessante.
Michele Manzotti
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