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Recensioni

Tedeschi Trucks Band, Teatro degli Arcimboldi, Milano, 17 aprile 2019

Sono le note di Signs, High Times, canzone che apre l’ultimo album Signs, a dare il benvenuto al numeroso pubblico arrivato da ogni parte d’Italia per la prima delle due date della Tedeschi Trucks Band.

L’economia del suono della TTB appare immediatamente chiara: in un gruppo in cui non vi sono gregari, in cui ogni singolo musicista viene lasciato libero di esprimersi al meglio, il suono tondo della band trova i suoi pilastri nella voce di Susan Tedeschi, la voce di Mike Mattison ed il drumming di Tyler Greenwell e J.J. Johnson.

E su tutto, naturalmente, la chitarra di Derek Trucks.

Una chitarra che, via via che seguono le canzoni della serata, si muove agile tra ogni singola nota per poi sparire e di nuovo riapparire tra le mille trame del suono di questa Band.

Ed è proprio nei momenti in cui la chitarra di Derek Trucks prende il sopravvento che ci si rende conto di quanto, pur se volontariamente e piacevolmente ingabbiata nella forma canzone, il suo suono sia così cosmico da far impazzire la bussola dei generi musicali e, da qualsiasi schema, contesto o struttura melodica prendano il volo, le note della sua chitarra diventano un caleidoscopio le cui sfumature hanno via via l’antichità della musica indiana, il fascino dei canti aborigeni, il vigore del blues, la nobiltà del jazz modale, l’irrequietezza del free jazz, tanto per accontentare i devoti alla classificazione dei generi.

Down in the Flood, dal repertorio di Bob Dylan, è la prima delle cover della serata ed il suono dell’intera TTB si mette in cerchio intorno alla voce di Mike Mattison la quale graffia come poche voci attualmente sanno fare mentre la chitarra di Derek Trucks, dopo aver duellato con quella della consorte, ben presto prende il volo verso continenti e paesi lontani.

Magari inesistenti e, proprio per questo, ancora più magici.

C’è qualcosa di mistico in questo sound, lo si avverte sulla pelle, lo si sente nel cuore. Lo si intuisce dalla pressoché totale assenza di show, di giochi di luci che non siano quelli basilari e strettamente necessari.

Un palco pieno di musicisti e pieno di suono.

Derek Trucks, che non si concede all’ iconografia del guitar hero, ha negli anni acquistato lo spessore del leader: come un vero leader sa prendere la scena così come sa starsene nelle retrovie. Avvicina i musicisti uno ad uno mentre suonano per far sentir loro la sua presenza così come scompare quando il centro del palco è della moglie Susan che affronta il blues come poche donne bianche sanno fare e suona la chitarra in maniera speculare a quella del marito: dove lui riesce a disegnare il suo tipico arcobaleno lei invece arriva con l’essenzialità e l’asciuttezza del blues.

Come ogni vero leader riesce a guidare il suono della sua band espandendolo, comprimendolo, regolandone i volumi e le intensità con un solo sguardo.

Midnight in Harlem è poetica come l’abbiamo sempre conosciuta e forse più di ogni altra canzone riesce a dare il senso della morbidezza del suono della TTB, di quell’eterno planare durante il quale – statene certi – non si perde mai d’intensità.

Don’t Keep Me Wondering è l’omaggio a quell’incredibile avventura, quella infinita famiglia chiamata Allman Brothers Band di cui Derek Trucks è stato protagonista ed è con questa cover che ci si rende conto di star assistendo all’ennesimo capitolo di una lunga tradizione di Family Band. Un’idea che prescinde dal legame di sangue ma che si fonda in quel valore di Brotherhood musicale che avvolge tutti: da ogni singolo musicista, alla crew, ai roadies ed al pubblico tutto. Dove tutto è fatto in modo tale da farlo sentire condiviso, dove ci si sente tutti parte di una grande, colorata e multietnica famiglia nella quale gioire e farsi forza a vicenda quando è il momento del dolore.

La carrellata finale di cover ha il sapore delle feste in famiglia e I Pity the Fool, ne costituisce il momento di maggior intensità, quando Susan Tedeschi esprime il meglio e si confronta a viso aperto con una gemma del repertorio di Bobby Blue Bland tirando fuori dal cilindro un assolo che sembra uscire dal più fumoso e lercio locale di Beale Street.

Le note finali sono affidate a Space Captain la cui “Learning to live together/It’s getting better together/We’ve got to get together/It’s getting better together” è tutto insieme il vero manifesto ideologico della serata, la filosofia di questa band ed il saluto tra vecchi amici destinati a ritrovarsi.

Questa è la Tedeschi Trucks Band, questo è quello a cui volevamo tutti assistere. Una promessa mantenuta in pieno e la sensazione appagante che oltre la maestria tecnica, oltre la bravura, ci sia stato consegnato qualcosa di più: un pezzettino di cuore da portare a casa con noi e tenere in caldo per la prossima occasione.

Giovanni de Liguori

 

 

 

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