foto (c) Paolo Pacini
Quel che colpisce più di ogni altra cosa in un concerto di Elton John è la forza delle canzoni, capolavori memorabili nei testi e nelle melodie.
Per la scaletta del suo “Farewell Yellow Brick Road”, il tour d’addio della sua carriera, Elton sembra lasciare fuori pochi dei brani più famosi, regalando una setlist che alterna in modo perfetto ballate indimenticabili a momenti di travolgente energia.
Circa 20.000 gli spettatori che, almeno sulla carta, si trovano di fronte all’ultimo concerto in assoluto di Elton John per il pubblico italiano.
L’avvio, puntualissimo, fin dalle prime battute fissa gli standard di un set che terrà il pubblico con il fiato sospeso per due ore e mezzo.
Elton è in splendida forma e così la band che lo accompagna. Non è quindi solo la densità della scaletta a segnare la qualità dello show, ma uno spettacolo musicalmente ineccepibile, fatto di grinta, musicalità, espressività, passione, interplay.
Elton e soci suonano benissimo e regalano, come ci si poteva immaginare, uno spettacolo ai massimi livelli della musica internazionale.
L’apertura è con “Bennie and the Jets” che in un crescendo trascina, attraverso “All the girls love Alice”, fino a “I guess that’s why they call it the blues”, aprendo la strada alla celebrazione dei maggiori successi dell’artista.
“Border Song” e “Tiny Dancer” inaugurano la serie delle ballate da pelle d’oca. Su quest’ultima, in particolare, il tastierista Kim Bullard supplisce all’assenza di alcune parti degli archi, ruolo che gli spetterà per buona parte del concerto.
La base ritmica è solidissima. Allo storico batterista Nigel Olsson, con Elton John fin dagli inizi (esempio d’eleganza dietro i tamburi e non solo, con tanto di abito da sera e guanti di pelle), si affianca il secondo set di batteria di John Mahon. Il tutto abbinato alla precisione di Matt Bissonette al basso e condito dalle eclettiche divagazioni di Ray Cooper alle percussioni.
“Indian Sunset”, eseguita da Elton al pianoforte con il solo accompagnamento delle percussioni, è il brano che dà a Cooper l’occasione di liberarsi in tutta la sua genialità, mentre sulla corale ”Someone saved my life tonight” lo stesso Cooper si scatena dietro un set di cinque timpani da orchestra.
Travolgenti “Rocket man” e “Levon”, quest’ultima con una lunga parentesi strumentale e soul in cui Elton dà prova di sapersi ancora muovere con agilità tra i tasti bianchi e neri, in coppia con un John Jorgenson alla chitarra (sostituto in questa occasione di Davey Johnstone) che si abbandona in mezzo al solo anche a una citazione della beatlesiana Day Tripper.
“Believe” è il momento in cui Elton si lascia andare alle parole raccontando l’impegno della sua Fondazione per la lotta all’AIDS, in un concerto in cui, al di là di un sentito saluto al pubblico italiano, in generale si lascia parlare soprattutto la musica.
Ancora momenti di intimità con “Daniel” e “Candle in the wind”, la proiezione di un video con una lunga carrellata di memorie su “I’m Still Standing” e poi la chiusura esplosiva con “Saturday night’s alright for fighting”.
C’è ancora spazio per i due bis ”Your song” e “Goodbye Yellow Brick Road” ad incorniciare un concerto che resterà a lungo nella memoria dei presenti.
Giulia Nuti
SCALETTA
“Bennie and the Jets”
“All the girls love Alice”
“I guess that’s why they call it the blues”
“Border song”
“Tiny dancer”
“Philadelphia Freedom”
“Indian sunset”
“Rocket man”
“Take me to the pilot”
“Sorry seems to be the hardest word”
“Someone saved my life tonight”
“Levon”
“Candle in the wind”
“Funeral for a friend/Love lies bleeding”
“Burn down the mission”
“Daniel”
“Believe”
“Sad songs”
“Don’t let the sun go down on me”
“The bitch is back”
“I’m still standing”
“Saturday night’s alright for fighting”
BIS
“Your song”
“Goodbye Yellow Brick Road”
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