(Urtovox / Audioglobe)
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La Sicilia è una terra calda e passionale, così intrigante che Cesare Basile ha deciso di raccontarla nel suo nuovo disco. La Cummeddia è una cometa che secondo la tradizione porterebbe sventure, tra cui la peste, ma la cummeddia è anche un chiaro riferimento alla società, in particolar modo allo stato che cerca di schiacciare chi è più debole. Infatti le undici canzoni che compongono il disco, scritte in siciliano, usando un particolare catanese arcaico, pesano come macigni, sono dei veri e propri inni contro la sopraffazione. Basile cerca e dosa le giuste sonorità mischiando e fondendo la musica tradizionale siciliana con il suo blues scarno e cupo, ed è proprio così che la rabbia, il dolore, il sudore, la ribellione dei neri nelle piantagioni di cotone americane, diventano le stesse dei braccianti, dei contadini, dei pastori del profondo Sud. Accompagnata da una lungo intro, “Mala la terra” apre il disco in maniera corale (all’urlo di “Mala la terra che è Patria, mala la pianta che coltiva”), la successiva “L’arvulu rossu” parla delle deportazione alle isole Tremiti per gli omosessuali, nel 1939 a Catania da parte del questore Molina con dei toni molto forti (” A scudo della razza uno sbirro fa sentenza, gli cava il male all’umanità, tu se cattiva semenza a scudo della razza lo sbirro fa sentenza, vediamo quanto è rosso il sangue di un frocio, che rosso è di colore questo sangue imbrattato, Molina dimmi quanto è rosso il sangue di uno venuto male”), si parla di orgoglio e appartenenza con “E sugnu talianu”, di litigi tra madre e figlia con “La curannera”, ancora folklore per “Sette venniri zuppiddi”, la filastrocca “La naca ri l’anniati” ci parla di annegati, di morti in mare dimostrandosi attualissima, una chitarra ossessiva introduce la “Chiurma limusinanti” che parla di mendicanti, la famosa armata dei pezzenti , struggente la titletrack “Cummeddia” con intrecci di voci e chitarre, ci porta verso atmosfere più orientali da deserto africano la successiva “Chitarra rispittusa”, “Cchi voli riri? ” è un’efficace metafora dove gli uomini colpiti dalle spine dei fichi d’India arrivano ad ammazzarsi tra di loro convinti di essere nel giusto, “Mila lu ventu” chiude il disco lasciando intravedere quasi un filo di speranza. Il disco è di forte impatto musicale, un’ondata di suoni grazie alle chitarre , le percussioni, i djeli ‘ngoni, i sintetizzatori di Basile, le percussioni di Massimo Ferrarotto, le chitarre di Sara Ardizzoni, il basso di Luca Recchia, la voce, le percussioni di Vera Di Lecce, le tastiere e le chitarre di Hugo Race, le percussioni e l’elettronica di Gino Robair, la voce e i tamburi a cornice di Alfio Antico. Non mancano due ospiti speciali come Rodrigo D’Erasmo al violino e Roberto Angelini alla lapsteel box. Un lavoro denso, emozionante, ricco di radici, gonfio di significato, forse il disco più politico del cantautore, che come sempre ci offre un’intensa prova vocale, profonda e rabbiosa (quasi uno sputo in faccia a certe ingiustizie), un nuovo e importante tassello nel suo percorso artistico, sempre interessante e mai prevedibile.
Marco Sonaglia
Tracce
Mala la terra
L’arvulu rossu
E sugnu talianu
La curannera
Setti venniri zuppiddi
La naca ri l’anniati
Chiurma limusinanti
Cummeddia
Chitarra rispittusa
Cchi voli riri?
Mina lu ventu
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