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foto (c) Barbara Rigon dal sito della compositrice
E’ una delle protagoniste della schiera dei compositori italiani. Silvia Colasanti ha un rapporto speciale con il Festival dei Due Mondi ed è tornata nel 2020 per presentare un trittico che ha come punto di riferimento il mito e che sulla scena assume la voce di Isabella Ferrari. La sera di sabato 22 agosto verrà presentato Arianna, Fedra, Didone un lavoro formato da tre monodrammi per attrice, coro femminile e orchestra su testo tratto dalle Epistulae Heroidum di Ovidio. L’Orchestra Giovanile Italiana sarà diretta da Roberto Abbado. Ne parliamo con la stessa autrice durante una pausa delle prove.
Il suo lavoro prevede la presenza di un’attrice. Come musicista qual è il suo rapporto con la parola recitata e, di conseguenza, anche con quella cantata tipica dell’opera tradizionale?
Sono due cose diverse. Io utilizzo la parola recitata come flusso di ricordi, di racconti incastonati all’interno di certi suoni, che naturalmente nascono e hanno un senso sulla base di quella parola. Però nei momenti forti ho bisogno del canto, come quando Arianna nella spiaggia urla il nome di Teseo e la stessa spiaggia le rimanda questo nome: Quindi ci sono delle suggestioni musicali molto forti per le quali c’è bisogno della parola cantata. Al tempo stesso la parola recitata è mediata dalla ragione e quindi è utile per un altro tipo di reazioni emotive. Queste lettere portate in scena sono il testo dal quale parte il compositore: nelle situazioni drammaturgiche che il testo richiama, a volte la recitazione facilita la comprensione di un certo tipo di situazione emotiva. Quando invece i momenti sono più viscerali e profondi il canto e la musica sono più adatti: quindi c’è il coro e ci sono zone esclusivamente musicali, con le note a descrivere la vera drammaturgia.
Parlando di musica, c’è un’orchestra con il suo direttore. Come compositrice del XXI secolo ha operato degli innesti quali quello dell’elettronica o altri legati ai nostri tempi?
E’ una compagine tradizionale, perché credo fermamente che gli strumenti utilizzati abitualmente in orchestra abbiano ancora intatta la possibilità di raccontare delle storie attraverso i loro suoni. Sonorità che nei secoli sono state esplorate e delle quali faccio un uso molto ampio, anche di quelle delle avanguardie più recenti. C’è una presenza di percussioni molto nutrita, ma credo che nel linguaggio musicale del 2020 la forza non sia tanto nell’invenzione di nuovi vocaboli o nuovi strumenti, quanto dell’uso che viene fatto di ciò che abbiamo a disposizione e nel contesto in cui questo viene inserito. Un aspetto formale che contenga la capacità di suscitare ancora meraviglia, commozione e tutto ciò che è legato all’arte, grazie a strumenti che abbiamo da tanti secoli.
Anche il mito, che è il soggetto del suo lavoro, arriva da lontano. E’ tutt’ora attuale, anche in un linguaggio dei nostri giorni?
Assolutamente sì, sono storie eterne che ci riguardano perché così è l’uomo. Le tante contraddizioni dell’animo umano sono state esplorate molto bene grazie a questi miti, favole esemplari che hanno tanti spazi di lettura e non hanno esaurito il loro senso.
Michele Manzotti
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