(Columbia)
www.brucespringsteen.net
Ad alcuni basta che un paio di pezzi siano buoni; e in aggiunta, è tutto grasso che cola, se altri due sono passabili: così da gridare al “gran disco” (o anche al capolavoro). Per Springsteen non basta. Decide di mettere nel disco 12 canzoni, e queste devono essere tutte capolavori; non ci possono essere cadute di stile, se no si parla subito di “disastro”. Ci ha abituato bene… ma in altri decadi, quando noi eravamo giovani, e anche lui lo era. Quando avevamo sentito meno musica (e sicuramente la migliore) e le nostre orecchie (e il cervello) non erano stati contaminati prima dalla musica liquida e poi dal digital noise. Ma come è stato per Western Stars, il songwriter statunitense ha intrapreso una nuova strada, che è lastricata di “nuovo asfalto” ma anche di “vecchia polvere”; come per farci capire che lui non rinnega il passato (e ben si ricorda di quei giorni), ma vuole anche andare avanti senza essere per forza il clone di se stesso. Così Letter To You guarda avanti e indietro; perché la vita a settant’anni suonati è inevitabilmente fatta di ricordi, cadute, successi e ferite, contrapposte a progetti futuri e quotidianità.
Per il ventesimo album in studio Springsteen ritrova la E-Street Band, e i vecchi amici si presentano in una forma smagliante. Riuniscei “ragazzi” nel suo studio di registrazione nel New Jersey, e chiama accanto a se Ron Aniello, alla produzione e Bob Clearmountain, al mixaggio. «Amo l’essenza quasi commovente di Letter to You, – così presenta il disco Springsteen – e amo il sound della E Street Band che suona completamente live in studio, in un modo che non avevamo quasi mai fatto prima, senza nessuna sovraincisione. Abbiamo realizzato l’album in soli cinque giorni, e quella che ne è venuta fuori è una delle più belle esperienze di registrazione che io abbia mai vissuto».
Il brano d’apertura One Minute You’re Here crea una sorta di continuità, anche senza violini, con le atmosfere di Western Stars (solitarie e intime, ma anche aperte verso una ricerca di comunità), legando queste al resto del disco; che fin dal brano successivo Letter To You, riporta l’ascoltatore a un sound vicino al classic rock più autentico. Con Burnin’ Train si entra nel vivo dell’“E-Street sound”, con in primo piano le chitarre, come fossero il richiamo di campane per i suoi fans. Segue nella tracklist Janey Needs A Shooter, brano che insieme a If I Was The Priest e Song For Orphans (presenti anche loro nel disco), composte da Springsteen negli anni ’70, ma mai incise in un disco ufficiale; scelta azzeccatissima quella di riprenderle ora. I tre pezzi sembrano avere una duplice ragione d’esserci: quella di fare da collante tra il passato e il presente, tra gli anni della ricerca del successo e questi, spesi a cercare di fare i conti con se stesso e i problemi irrisolti di una vita. D’altro canto la triade di brani pare anche un omaggio a Dylan, o forse al “nuovo Dylan” che Springsteen doveva essere (e non lo è stato mai fino in fondo!). Sta di fatto che questi pezzi (sparsi nella tracklist) risultano tre veri capolavori.
Con la successiva canzone (Last Man Standing), insieme a Ghosts, tocchiamo il tema che è il motore di questo album. Riguardo al primo brano Springsteen ha affermato di averlo scritto dopo aver fatto visita sul letto di morte al suo vecchio amico George Theiss, membro dei Castiles (sua prima band) e di essersi reso conto, dopo la morte di Theiss, di essere l’unico sopravvissuto. È una canzone sul rimpianto di una generazione che aveva grande aspettative. Mentre per Ghosts Bruce afferma che: «è un brano che fa emergere la bellezza e la gioia di essere in una band, e il dolore che scaturisce dalla perdita di qualcuno a causa di una malattia o del tempo. Ghosts cerca di parlare direttamente allo spirito della musica, qualcosa che non appartiene a nessuno di noi ma che può solo essere scoperto per poi essere condiviso insieme. Questo spirito risiede nell’anima comune della E Street Band, alimentato dal cuore».
Il disco continua snocciolando, come già detto dell’ottimo classic rock, e The Power Of Prayer e House Of A Thousand Guitars ne sono l’esempio più fulgido. Al computo finale rimangono solo due brani: il “politico” Rainmaker, dove il songwriter traccia il profilo ben definito, in cui si staglia un personaggio come Trump, uno pronto a prometter miracoli, un capopopolo seguito da tutti. L’album si chiude con I’ll See You In My Dreams, una ballata acustica in progressione che ancora una volta evoca gli amici lasciati per strada, accompagnandosi a loro attraverso un sound potente.
Come si diceva all’inizio, a volte basterebbero solo due brani per dire che un disco è bello, qui fatichiamo a capire, tra i dodici, dove l’ispirazione di Springsteen possa scendere sotto un livello di eccellenza, toccando spesso l’ottimo.
Riccardo Santangelo
Tagged Bruce Springsteen