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Il primo passo per appassionarsi a un solista o un gruppo, è il disco. Poi ci sono i concerti dove si ha modo vedere e sentire senza filtri. Quando però si ha la possibilità, e si vuole approfondire la conoscenza, una chiacchierata più estesa è la forma migliore. Lo abbiamo fatto con il chitarrista Lou Leonardi, il quale fra le sue qualità, c’è un rimarchevole atteggiamento, la passione e la condivisione prima di ogni altra condizione.
Quando hai avviato il progetto Lou&TheBlues nel 1998, avevi dichiarato che l’idea era quella di creare una band che suonasse del classicissimo electric blues. Poi nel 2017 nasce il combo dei The Fullertones, di cui sei uno dei due chitarristi. Il vostro primo disco, uscito l’anno scorso, si intitola Stay Electric (ll popolo del Blues/Audioglobe). La parola “electric” mi ha portato a pensare ad un noto gruppo, perché toscano come te, i Dennis & The Jets, e perché nel 1999 pubblicarono per Il Popolo Del Blues, con la produzione di Ernesto De Pascale e Sergio Salaorni, il disco, Passami la Scossa. Ti chiedo, in terra toscana la folgorazione elettrica va per la maggiore, così da rimanere anche tu contagiato da quelle sonorità?
Con Lou&TheBlues non siamo mai stati troppo “classici” ma sicuramente eravamo molto elettrici. Avevamo un repertorio abbastanza diverso da altre blues band spaziando da Bonnie Raitt a Volker Strifler, dalla Ford Blues Band a John Prine; un po’ per scelta, un po’ perché ho sempre ritenuto che ci fossero gruppi più portati per suonare quel tipo di blues. Ovviamente quel sound è la mia vita, adoro ascoltarlo, lo sento parte di me ma allo stesso tempo non credo che sia realmente parte del mio modo di suonare e di approcciarmi alla chitarra. I Dennis & The Jets sono dei miti assoluti per me. Il rock and roll nella mia formazione musicale è tanto importante quanto lo è il blues e loro sono stati una grande fonte di ispirazione per me. Ricordo ancora un bellissimo concerto organizzato dal Music Service di Rosario Aloisio nel parcheggio del Golden Bar a Siena. Indimenticabile. La loro versione di Coccinella (n.d.t. storico e antesignano pezzo di Ghigo del 1957), credo di averla suonata live per almeno quindici anni di fila. Forse è proprio nella parola “electric”, come dici tu, che mi sento veramente a casa, in quel mondo di mezzo tra il rock and roll e il blues, tra Chuck Berry e Jimmie Vaughan. Indegno di entrambi ma follemente innamorato ed ispirato da loro. Sentivo la mancanza di certe sonorità, volevo rimettere in piedi una band che strizzasse un occhio verso il passato ma allo stesso tempo camminasse verso il futuro. I Fullertones sono esattamente quello di cui avevo bisogno in questo momento della mia vita. L’ispirazione viene da musicisti come Doyle Bramhall II, Gary Clark Jr., The Hoax. La complicità, la sintonia, l’equilibrio che si è creato suonando, per la prima volta, con Francesco Bellia, Matteo D’Alessandro e Lorenzo Alderighi hanno fatto il resto, dando vita a delle sonorità che sento mie, ad uno stile personale e finalmente a dei brani originali.
Torniamo a Lou&The Blues, il disco A Long Way è segnato da palesi sonorità blues/soul/funky, c’è una voce femminile, Margaretha Kemper, un hammond, un sax, oltre a chitarra e batteria. Come mai quella apprezzabile combinazione di stili, ad oggi non gli hai dato un seguito.
Con Lou&TheBlues siamo cresciuti insieme ed abbiamo fatto esperienze indimenticabili tra cui due tour in California con Volker Strifler, Shana Morrison, Andy Just ed abbiamo avuto la fortuna di suonare in tanti festival importanti. Alla fine non c’è stato un seguito perché mi sono reso conto che le strade di ognuno di noi puntavano in direzioni diverse e in quel momento abbiamo ritenuto che fosse giusto separarci e seguire ognuno i propri sogni.
Per il disco dei The Fullertones hai firmato sette pezzi su nove. Quando componi inizi da un foglio di carta, nel senso che scrivi prima il testo e poi pensi alla adeguata soluzione musicale che, di getto, è più orientata al blues o al rock?
In realtà credo di avere un metodo compositivo un po’ atipico. Il foglio è l’ultima cosa che prendo in mano. La prima cosa è la chitarra e parto sempre da un “riff”. Non a caso tra i miei chitarristi preferiti ci sono Keith Richards, Chuck Berry e Angus Young e la cosa che forse li accumuna più di tutto è che sono dei maestri nel creare riff che hanno fatto la storia della musica. Intorno al riff creo poi la struttura musicale e solo quando ho qualcosa di veramente solido mi chiedo che tipo di emozioni mi trasmette quel pezzo e decido di cosa parlare nel testo.
Nel disco di Lou&The Blues, il chitarrista Volker Strifler suona in tre pezzi e ne ha composti due. Nel disco dei The Fullertones è citato nei ringraziamenti insieme, fra gli altri, a Shana Morrison (figlia del grande Van), ma nel disco non appaiono in un ruolo attivo. Come mai?
Per questo disco erano previste un sacco di collaborazioni, avrebbe dovuto suonare Marco Pandolfi, Andy Just, Volker Strifler, Scott Mc Keon… ma purtroppo le registrazioni sono combaciate esattamente con l’ultimo weekend prima del lockdown per il Covid. Questa cosa ha ovviamente fatto saltare tutti i nostri piani ed i musicisti che dovevano partecipare erano ovviamente impossibilitati nel raggiungere gli studi con i quali avevamo un accordo per le registrazioni. Abbiamo provato ad aspettare per diverse settimane per vedere se la cosa si sbloccava ma arrivati a primavera non potevamo continuare a rimandare, altrimenti non saremmo riusciti ad avere il disco pronto per l’estate e per quei pochi concerti che erano rimasti ancora confermati dopo tutto il caos della pandemia. Ci è dispiaciuto molto rinunciare a queste collaborazioni ma non potevamo fare diversamente. I ringraziamenti a Shana e Volker sono doverosi perché ho iniziato a scrivere i brani di questo disco proprio mentre ero in California con loro, spronandomi a portare avanti il lavoro che avevo iniziato. Un altro importante ringraziamento è quello ad Edward Abbiati, grandissimo musicista che stimo molto e che mi ha dato un supporto molto importante nella revisione dei testi.
Ci sono tanti gruppi che suonano rock/blues, e per qualcuno il rischio di apparire standardizzato c’è. In che modo ci si può distinguere?
Non credo di avere un ricetta per distinguermi. Sono scelte molto personali. C’è chi vuole suonare “come” qualcuno e chi prende ispirazione “da” qualcuno e la mette al servizio di quello che vuole raccontare. Ho una consistente collezione di dischi nel mio studio e se vai a vederli uno per uno, gran parte sono nomi poco conosciuti. Quando ancora andavamo nei negozi di dischi a cercare ispirazione io spesso mi fiondavo sui nomi che non avevo mai sentito. Ordinavo dischi via catalogo cartaceo dalla Antone’s Record in Texas. Non so se questo mi ha aiutato a distinguermi nelle mie composizioni. Quello che è certo è che mi ha messo a disposizione una tavolozza di colori da cui prendere ispirazione e, forse, riascoltando il nostro disco, mi fa ritrovare un po’ tutti quei colori miscelati tra di loro con l’aggiunta del mio modo di essere, le mie emozioni e i miei limiti messi a servizio della musica. A tutto questo va aggiunto un ingrediente da non sottovalutare: un disco, alla fine, non si scrive da soli, dentro ci sono le influenze dei miei compagni di viaggio e di conseguenza i loro gusti, la loro tecnica, le loro emozioni. Se questo ha dato vita ad un disco che si distingue, beh… forse può essere uno spunto per chi non vuole suonare “come” qualcuno.
Va da sé che la promozione di un disco passa inevitabilmente anche dal vivo. Visto il momentaccio che stiamo vivendo, ritieni che il positivo riscontro avuto dalle recensioni del vostro disco, sia soddisfacente anche senza il responso davanti al pubbico?
La promozione di un disco passa da molte cose. Come ben sai gioverebbe un ottimo ufficio stampa, dei passaggi in radio, ovviamente un’adeguata promozione durante i live. Noi purtroppo non abbiamo le disponibilità per poter spingere il disco tramite un ufficio stampa ed i passaggi in radio vengono spesso facilitati anche da questo, oltre che dal tipo di musica che si propone. Noi abbiamo scelto di non fare compromessi tra quello che ci piace e quello che andrebbe fatto per guadagnarsi uno spazio in radio. Se poi ci metti che abbiamo avuto il tempismo perfetto di registrare un disco in piena era Covid diciamo che abbiamo dimostrato di non essere dei grandi promoter di noi stessi! Alla fine però la nostra priorità era dar vita a qualcosa di nostro ed è quello che abbiamo fatto. Certo dispiace un po’ aver dovuto rinunciare a molti concerti che avevamo programmato e che, ad oggi non sappiamo più, se e quando li recupereremo. Una cosa di cui siamo felicissimi però è la grande disponibilità che abbiamo trovato in tante testate che hanno deciso di recensire il nostro disco, dandoci un prezioso aiuto nel veicolare un po’ verso l’esterno il nostro lavoro.
Te la senti di esprimere un parere sulla situazione che gira intorno al blues in Italia. Locali, festival, organizzazioni, associazioni varie, mezzi di comunicazione su carta, on line e radio.
Non credo di essere la persona adatta nel fare un’analisi di quello che succede nel mondo del blues in Italia. Quello che posso dire è che negli anni 90, da ragazzino, seguivo mio cugino e sostenevo il distaccamento di Siena dell’Associazione Culturale Blue Chicago ed erano veramente altri tempi. La musica aveva uno spazio importante nelle attività culturali. Oggi c’è sempre meno spazio e meno possibilità per potersi esprimere e per poter veicolare la voce del blues e della musica live in generale. Io personalmente non ho molte conoscenze, non faccio parte di associazioni e non sono tipo da cavalcare un’onda per arrivare da qualche parte. Vado dove apprezzano quello che faccio e non “chi conosco”.C’è ancora un po’ di gente che per il blues e per la musica live sta dando gran parte della sua vita. Alcuni gestori dei locali dove siamo abituati a suonare sono linfa vitale per questa musica. Locali come lo StranPalato, lo Stones Cafè, il Matto Rosso, il Blue Seagull, Bottega Roots, il 1001 ASD o Festival come il Torrita Blues ed altri, sono ormai mosche bianche ed hanno la nostra stima incondizionata per come stanno cercando di superare questo difficile momento. Noi teniamo duro e non vediamo l’ora che questa situazioni passi e che, speriamo, si possa tornare a respirare l’aria di quei posti e di quei palchi.
In futuro potremmo trovarti artefice di qualche altra proposta di gruppo e stile musicale, oppure i The Fullertones sono il posto giusto?
Credo che dopo quello che abbiamo vissuto durante l’ultimo anno sia un po’ difficile parlare di futuro. L’unica cosa certa è che mi vedrà comunque con chitarra in mano, magari con le dita un po’ arrugginite, ma sempre pronte a portare un po’ di emozioni su qualche palco. In quel futuro e su quei palchi ci saranno sicuramente i Fullertones. Li sento parte integrante della mia vita e mi fanno sentire a mio agio in tutto quello che facciamo insieme. Ho bisogno di rivederli, di riscaldare le valvole e di far scorrere un po’ di elettricità! Tra l’altro abbiamo già qualche brano nuovo che potrebbe dar vita a qualche singolo o, con un po’ di pazienza, ad un altro disco. Allo stesso tempo, inutile dirlo, porterò avanti, parallelamente, l’altro progetto di cui faccio parte da oltre dieci anni. Pure sixties rock’n’roll power con i Jaguari. Sonorità e attitudini diverse, ambienti differenti ma altrettanto stimolanti. Una band che mi ha consentito di crescere tanto, facendo oltre 700 concerti, varcando la soglia degli Abbey Road Studios e che mi ha regalato emozioni indimenticabili. Se guardo al futuro quindi ho due sole certezze: la musica e il lettore del volume rigorosamente a 11 seguito da un fonico che mi urla contro.
Silvano Brambilla
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