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Foto concesse dall’ufficio stampa Carta da Musica
Roberto Kunstler torna a rivolgersi al pubblico due anni dopo “Senza dire niente” con il nuovo Ep “Davanti alla fine del mondo”. Per l’occasione parliamo lo stesso autore e interprete.
Ci racconta la genesi di questi due lavori usciti in un periodo singolare per la musica e per il nostro paese?
L’idea per l’ep “Davanti alla fine del mondo” arrivò nella primavera del 2020, in pieno lockdown. In quei giorni mi preparavo ad affrontare la mia prima, e fin qui unica, esibizione come pittore, in una personale alla Galleria Incinque Open Art, a Monti, nel cuore di Roma. A differenza di tutti gli altri miei lavori, Davanti alla fine del mondo ha ricevuto un primo input dall’incontro con il filosofo e saggista Mauro Cascio, allievo della scuola di Cacciari e autore dell’omonimo libro di racconti. L’idea di coniugare una serie di racconti filosofici con una raccolta di canzoni, con l’intenzione di promuovere un progetto interdisciplinare, è stata di Massimo Ricciuti, amico comune, scrittore e giornalista, che mi ha chiesto se volevo ispirarmi ad alcuni di questi racconti per scrivere nuove canzoni. In realtà si è trattato di un’ispirazione molto libera. Nel senso che non ho dovuto mettere in forma-canzone il contenuto dei racconti. Mi sono limitato a prendere degli spunti dai personaggi presenti in tre racconti e da alcune brevi suggestioni in versi che mi ha suggerito lo stesso Massimo Ricciuti, anche lui ispirato dalla lettura dei racconti filosofali di Cascio. Io ho completati quegli spunti adattandoli per essere messi in musica. Nel libro di Cascio, “la fine del mondo” non avviene tramite una catastrofe o un’invasione di alieni, come siamo abituati a vedere nei film di fantascienza, bensì attraverso la perdita dell’uso della parola da parte dei protagonisti del racconto che si chiamano A e B, che ritroviamo anche nel refrain del brano che da il titolo all’Ep. Le canzoni direttamente collegate ai racconti del libro sono tre: “Davanti alla fine del mondo”, “L’ultimo viaggio di Ulisse” e “Canzone di Abelardo”. Le altre tre: “Echi del tempo”, “Getterò alle spalle” e “Acqua nell’acqua”, nascono invece in autonomia, e ciò non toglie che vanno ad integrarsi perfettamente con le altre nel disco riportandolo, come si diceva un tempo, ad una sorta di concept album. Questa sorta di indagine sullo sgretolamento del linguaggio presente in Davanti alla fine del mondo era, in qualche modo, già presente nel precedente album “Senza dire niente”, le cui registrazioni abbracciano un arco di due-tre anni. Anticipato da tre singoli, “Senza dire niente” è uscito nell’autunno del 2019 quasi in punta di piedi, coerente nel titolo ma non certo per mia scelta, piuttosto per quello che abbiamo vissuto allo scatenarsi della pandemia, che ha creato le condizioni per farci pensare ad altro che non alla musica e all’arte. In quel lavoro ho messo insieme canzoni inedite e alcune di quelle che avevo scritto per i dischi di Sergio Cammariere e di cui non avevo mai pubblicato una mia versione, sebbene le portassi spesso dal vivo nei concerti. Tra queste “Tutto quello che un uomo” (brano presentato a Sanremo nel 2003), “Padre della notte” e la mia versione di “Dalla pace del mare lontano”, che è anche il brano di apertura dell’album “I ricordi e le persone” del 1993, a firma Kunstler & Cammariere che Sony Music ha da poco pubblicato per la prima volta in digitale. Di “Vita d’artista”, che chiude l’album, scrissi parole e musica nel 1997 giocando sul fatto che il mio cognome in tedesco significa proprio artista.
Il nuovo disco si muove tra sonorità acustiche e contaminazioni più elettriche, quanto è stata importante la produzione e gli arrangiamenti di Francesco Musacco?
La produzione artistica di Francesco Musacco è di un’importanza fondamentale. Si tratta di una collaborazione cominciata quindici anni fa, credo nella primavera del 2007. L’incontro con Francesco si rivelò da subito fondamentale e decisivo per la realizzazione in studio delle mie canzoni. Prima che ci conoscessimo avevo sempre registrato i miei dischi suonando con amici musicisti di altissimo livello. Ma per gli arrangiamenti seguivamo la direzione data dai miei provini, che poi arricchivamo nelle session in sala di registrazione. Ma la figura di un vero produttore artistico non c’era mai stata. Lo eravamo un po’ tutti, tutti i musicisti con cui suonavo potevano dare un loro contributo, provare una loro idea. Certo, spesso stava a me decidere cosa andasse bene… Ma un vero produttore, poi del calibro di Francesco Musacco, non c’era mai stato. Nei tre album che feci a inizio carriera i discografici mi davano carta bianca, lo stesso accadde per il disco d’esordio insieme a Cammariere. Fummo noi, insieme alla Stress Band ad arrangiare il disco. Soprattutto Sergio ed io, che avevamo passato parecchi mesi a fare provini. Ma era sempre uno sguardo dall’interno. Attraverso la collaborazione e l’amicizia con Francesco Musacco mi sento invece arricchito dal cambio di prospettiva, dal suo sguardo dall’esterno, che può dire e dare qualcosa in più. In fondo, questo aspetto della produzione vale per tutti. Anche ai livelli più alti. I dischi di Bob Dylan arrangiati e realizzati da Daniel Lanois sono in assoluto quelli che suonano meglio. Ho citato non a caso questo grande produttore che ha realizzato dischi bellissimi anche con altri artisti come gli U 2 o Peter Gabriel, tanto per fare un esempio. Sì, perché nell’approcciare le mie canzoni, Francesco deve aver pensato sicuramente anche a Dylan e alle sue periferie, a quel mondo fatto di suggestioni, country, rock, blues. Di armonica e chitarra acustica. Ricordo che ero molto lusingato quando, i primi tempi, mi diceva che la cosa che più lo attraeva nell’accostarsi a questo mio mondo era la mia voce, il mio modo di cantare. Nessuno mi aveva mai detto una cosa simile. Di me, ero abituato da sempre a sentir parlare bene, in primis, dei testi. E ad oggi più di un critico musicale ha accostato alcuni suoi arrangiamenti a quelli di Daniel Lanois.
C’è una differenza nel metodo di scrittura nei suoi lavori e in quelli per altri (ad esempio il già citato Cammariere)?
No, non c’è una differenza nel metodo di scrittura. Piuttosto direi che ho sempre trovato e sperimentato diverse metodologie di scrittura e di approccio. È una scrittura che viene dal silenzio, dall’attenzione, dalla concentrazione e dall’ascolto di tutto quello che il rumore della modernità ha sommerso. Considero il mio scrivere come un farsi antenna, un ricetrasmettitore di segnali liberati nell’universo sin dai tempi di Socrate e di Platone. E ancora prima, dalle antiche civiltà orientali e mediorientali. Risalendo fino all’epoca del mito. È per questo che ho sempre voluto che il mio scrivere, pur trattando anche di temi quotidiani, non avesse mai una collocazione nel tempo ma fosse in qualche modo inattuale e fuori dal tempo profano, bensì in un tempo di fondazione com’è appunto quello della mitologia. Così come tutti i personaggi e i paesaggi di molte mie canzoni sono calati in una odissea privata, in una leggenda privata, in un tempo che è fuori dal tempo. Quando scrivo non so da dove arriva il vento, solo mi faccio strumento. Se scrivo ancora è per concedermi pause dall’essere.
Del nuovo Ep ci hanno colpito “Echi del tempo” e “Getterò alle spalle”, può parlarcene meglio?
Non mi è facile parlare delle mie canzoni. Quello che avevo da dire in quel momento l’ho messo lì dentro. Di alcune posso però dire esattamente perché le ho scritte o cosa mi ha spinto a scriverle. Ma non c’è una ricerca… e forse nemmeno un cercatore… “Getterò alle spalle”, per esempio, è venuta da sola, in una sera d’estate, seduto sulla mia veranda e la musica arrivò insieme alle parole. È una canzone d’amore che tratta il consueto e doloroso tema della separazione amorosa, ma lo fa senza tristezza, con una vena di malinconica allegria, lasciando intravedere la possibilità di una consapevole accettazione di un’unità di tutte le cose. “Echi del tempo” è il risultato di un esperimento mai fatto prima. Almeno per me. L’abbiamo scritta insieme io e Francesco Musacco. Lui ha scritto la musica ed io le parole. Stavamo lavorando distanti chilometri perché eravamo in pieno lockdown e nonostante la distanza eravamo in fermento creativo. Francesco mi mandò una sua idea, cominciai a suonare il pezzo con la chitarra e a scriverci sopra delle parole. È stato abbastanza semplice. Il testo della canzone sembrò arrivarmi dai vicoli del Greenwich Village in cui ho pascolato i miei sogni di ragazzino. Penso al protagonista di questa canzone come allo stesso vagabondo notturno di “Mr. Tambourine man” che non ha sonno e non ha un posto dove andare. Penso alle stesse domande di cui ancora oggi cerchiamo una risposta nel vento. Sospesa negli echi del tempo.
Lei viene dalla grande palestra del Folkstudio, un luogo che metteva la canzone d’autore al centro di tutto. Oggi in che stato trova questa musica e ci sono nomi che recentemente l’hanno colpita?
Sì, cominciai ad esibirmi al Folkstudio a diciassette anni e qualcuno mi ha fatto notare che probabilmente sono l’ultimo cantautore romano uscito da quella palestra, da quella scuola. Ma tutte queste definizioni sono solo concetti astratti. Direi piuttosto che anch’io sono passato dalla “palestra” del Folk Studio, che poi era molto piccola, proprio nell’ultimo periodo di quella bellissima officina musicale da dove sono usciti De Gregori, Venditti e molti altri cantautori, soprattutto della cosiddetta “scuola romana”. Frequentai il mitico locale di Giancarlo Cesaroni alla fine degli anni 70, andavo ancora al liceo. Erano gli “anni di piombo”. Anni difficili, ma che ancora offrivano l’opportunità di sentirsi parte di quel movimento di evoluzione e rivoluzione mondiale che era cominciato, circa vent’anni prima, all’inizio degli anni 60. Al Folkstudio, nonostante la differenza di età, diventai amico di Francesco De Gregori e Mimmo Locasciulli che furono i primi a parlare delle mie esibizioni anche nell’ambiente discografico della RCA. Diventai amico anche di Ernesto Bassignano, di Giancarlo Susanna e Alberto Castelli, fondatori di Radio Blue (una delle prime radio libere) che dopo avermi ascoltato mi invitarono a cantare in diretta alla radio. Nello stesso periodo registrai i miei primi provini negli studi della RCA di Ennio Melis. E poi arrivarono Vincenzo Micocci e Lilli Greco. Anche questa fu una palestra importante. Ma in fondo, quasi non posso separare del tutto un’esperienza dall’altra. Tutte queste cose accaddero contemporaneamente. A poco più di vent’anni partecipai al Festival di Sanremo e pubblicai il mio primo album che prendeva il titolo proprio da una delle prime canzoni che cantavo nel locale di Trastevere, “Gente comune”. Tornando quindi al Folkstudio, è difficile raccontare il clima di quelle giornate. Le esibizioni acustiche senza microfono, seduto, davanti a un pubblico attento, sul famoso seggiolone rosso, lo stesso dove all’inizio degli anni sessanta si era seduto anche un ancora sconosciuto Robert Zimmerman. Tutto il resto è storia. Una storia di cui non posso non esser felice di averne fatto parte.
Marco Sonaglia
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