Regia; Peter Jackson
Anno 2021, durata 360 minuti
Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures, Disney +
Da qualche giorno è disponibile, in visione sul canale Disney+(solo per abbonati), il docufilm del premio Oscar Peter Jackson “The Beatles: Get Back”: si tratta di tre puntate di circa due ore ciascuna, frutto di un lungo ed importante lavoro svolto su oltre 60 ore di girato ed oltre 150 ore di materiale audio, il tutto proveniente dall’idea originale di fare un film sulle sessioni di registrazione di quello che sarebbe stato l’ultimo disco pubblicato dai Fab Four. Si tratta di un materiale di importanza eccezionale perché la visione di questo docufilm riproduce esattamente il loro percorso creativo testimoniando quelle che erano le dinamiche all’interno del gruppo nel gennaio del 1969 allorquando, a circa un anno e mezzo dalla scomparsa del loro manager Brian Epstein, la forza delle singole personalità era divenuta sempre più accentuata differenziando, per l’effetto, l’approccio che ognuno di loro aveva nei confronti della band. Un documento che tuttavia non conferma quanto detto e/o favoleggiato finora perché ci consegna i Beatles per quello che erano e cioè quattro ragazzi di circa 28 anni (!) che affrontano un processo creativo con i naturali alti e bassi ma senza mai perdere la sintonia fra di loro, la sacrosanta voglia di cazzeggiare ed allo stesso tempo sempre pronti a recuperare qualsiasi naturale e fisiologico screzio così come nei giorni in cui un insoddisfatto Harrison dichiara di voler abbandonare il gruppo.
L’opera di Peter Jackson, attraverso un calendario che dal 2 ci conduce fino al 31 gennaio, testimonia la nascita, la discussione e la creazione di ogni singola canzone che confluì poi nel celebre album “Let It Be”. Assistere alla nascita ed alla modellazione di questi gioielli pop, in assenza di qualsiasi filtro e con una costante e fedele presa diretta, lascia ancora oggi sbigottiti e consegna, a noi ammirati spettatori, alcune sacrosante verità come la leadership naturale di Paul in quel determinato momento storico e la sofferenza di George che ride con gli altri ma non fa ridere gli altri e che spesso si inabissa in lunghe e silenziose smorfie di insoddisfazione mentre Paul e John, che i racconti volevano essere i due Beatles più litigiosi durante quelle sedute di registrazione, sono invece sempre pronti a scambiarsi sguardi di complicità e condividere racconti, battute e ricordi. Cos’altro c’è, che non sapevamo prima e che oggi ci viene invece svelato da queste oltre sei ore di film? C’è Ringo che conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno, quanto sia fondamentale il suo apporto ritmico alla Band e quanto importanti siano le sue doti di batterista, c’è Billy Preston che si fonde naturalmente con loro come se fosse stato da sempre uno dei Beatles, c’è George Martin che, elegantissimo, resta nelle retrovie ed in pochi secondi riesce a modificare e modellare i suoni ma più di ogni altra cosa c’è la conferma di quanto i Beatles siano un’unica, magica ed irripetibile alchimia: i quattro Beatles, come più volte affermato, sono come i quattro angoli di un quadrato che esiste soltanto con la presenza di tutti e quattro.
Quella dei Beatles è una magia la cui rappresentazione, in questo film, avviene e si ripete sotto i nostri occhi tutte le volte in cui i loro strumenti si uniscono e tutte le volte in cui le loro voci si fondono ed è così distinta la differenza con qualsiasi altro momento delle prove in cui non sono tutti presenti che si capisce che esiste un “sound Beatles” ed una “voce Beatles” nettamente distinta da ogni altra cosa. Un po’ come quattro stelle capaci di brillare singolarmente ma che soltanto una volta avvicinatesi in un determinato modo riescono a formare una costellazione. La stessa magia che, nella parte finale di questo film, si ripete sul tetto del n. 3 di Saville Row in occasione del famoso “Rooftop Concert” che qui ci viene mostrato nella sua totalità nonché in tutti i suoi preparativi.
Quello che sarebbe successo dopo il 31 gennaio del 1969 lo sappiamo bene: il discusso missaggio di Phil Spector, l’arrivo di Allen Klein che accentuò i dissidi interni del gruppo (peraltro fu proprio Allen Klein che licenziò Mal Evans, una delle figure più simpatiche all’interno di questo film), le registrazioni di “Abbey Road”. Quel processo, insomma, che Lennon definì la “morte lenta”. Tuttavia, è tanta la bellezza che a noi resta dalla visione di questo film, da rendere superflua l’ennesima analisi sulle ragioni dello scioglimento del più grande gruppo della storia del pop.
Quello che vogliamo, al termine della visione di questo film, l’unica cosa che realmente vogliamo, è riaccendere lo schermo, mettere via qualsiasi congettura, premere play per l’ennesima volta e ritornare in quella sala perché sentiamo che quella sala è anche nostra, come nostre sono quelle canzoni, e perché di quella sala vogliamo rivedere ogni angolo, arredo, pannello, strumento, vogliamo studiare le espressioni e rivedere lo sguardo di Paul, John, George, Ringo, Yoko, Linda, Pattie, Maureen, George Martin, Billy e quello di tutti gli altri che abbiamo visto in queste ore, alla ricerca di un altro particolare, un altro suono, un’altra frase, che magari ci è sfuggita, per poi tornare a rivederlo e poi ancora di nuovo perché questa è una bellezza di cui non ci si stanca mai e perché molto probabilmente questo film è il regalo più bello che avremmo mai potuto immaginare di ricevere.
Giovanni de Liguori
Tagged Get Back, Peter Jackson, The Beatles