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foto (c) Antonio De Sarno
Su queste pagine avevamo recensito l’ultimo album di Andrea Chimenti Il Deserto La Notte Il Mare (Vrec/Audioglobe). Con l’occasione gli abbiamo chiesto come è nato questo lavoro
Torna al suo pubblico dopo vari anni con un nuovo disco, che effetto le fa uscire in un momento così particolare per la musica e per il mondo che ci circonda?
Una grande emozione perché è un po’ come lanciarsi nel vuoto. Il disco era pronto da tempo e con la Vrec ci siamo chiesti quando fosse il momento migliore per farlo uscire. Ci siamo resi conto che era un azzardo stamparlo di questi tempi, ma ugualmente il disco non poteva più rimanere in un cassetto. È un periodo difficile, soprattutto per i concerti che sono importantissimi per la promozione e le vendite. Diciamo che è una roulette, ma per il momento siamo molto contenti della risposta del pubblico e della critica.
Il titolo del disco è sicuramente originale. Ce lo può spiegare?
Sono tre parole che richiamano una condizione interiore, ma non solo. Cercavo un titolo che fosse rappresentativo dei tempi che viviamo e dare un titolo ad un album non è mai una cosa semplice. Spesso lo cerco tra i testi delle canzoni ed è stato il brano “Bimbo” a suggerirmelo. È indubbio che viviamo un deserto culturale ormai da diversi anni che sta sfumando sempre di più verso una notte buia. Il mare è la distanza che ci separa da un possibile approdo, rappresenta anche la profondità che ci attrae e spaventa allo stesso tempo, quella profondità che abbiamo paura di scandagliare. Il mare è sempre un’incognita, calmo o tempestoso. Queste tre parole, simboli di uno stato d’animo interiore, sono anche tre parole estremamente concrete: il nostro tempo assiste ad una notte dei tempi dove molti popoli sono costretti ad attraversare il deserto e il mare inseguendo un sogno di salvezza, un luogo sicuro dove poter vivere, lontano da soprusi e guerre.
Ha un metodo preciso nella scrittura delle canzoni?
Dico sempre che non sono un buon artigiano della canzone e quindi non ho metodi da insegnare. Credo molto nell’ispirazione e l’ispirazione giunge sempre in modi diversi sorprendendomi ogni volta. A volte è il testo che nasce per primo, altre volte la musica. Però se guardo a ritroso devo dire che i miei brani migliori sono quelli dove il testo è nato per primo. L’ispirazione non è qualcosa che puoi gestire o comandare, per questo dico che non sono un buon artigiano e per questo motivo i miei dischi sono spesso molto distanziati l’uno dall’altro. L’ispirazione ha i suoi tempi che devi imparare ad accettare e rispettare.
Come ha scelto gli ospiti speciali che ci sono nel disco?
Le collaborazioni sono frutto di magiche concatenazioni che si creano durante la lavorazione. A volte è il brano che ti suggerisce un determinato musicista o cantante, altre volte sono incontri che sembrano spuntare nel momento giusto. David Jackson era il fiatista ideale per questo disco e Cristiano Roversi, con cui ho prodotto l’album, aveva la possibilità di contattarlo e così è stato. David ha apprezzato molto i brani ed è stato incredibile come ha saputo entrare dentro le canzoni. Ha voluto sapere di cosa parlavano i testi, ha voluto le traduzioni e questo dimostra la sua serietà…devo dire che raramente i musicisti italiani mi fanno domande sui significati dei testi. Le altre collaborazioni sono state altrettanto importanti: Antonio Aiazzi è una vecchia conoscenza e ho sempre amato la sua musica, Fabio Galavotti è un grande amico oltre ad essere stato il bassista dei Moda, di Francesco Magnelli potrei dire altrettanto, con loro ho fatto centinaia di concerti in passato. Ginevra Di Marco ha accolto volentieri il brano “Allodola Nera” che avevo pensato adatto a lei.
C’è una o più canzoni di questo lavoro a cui è legato particolarmente?
Non è facile rispondere, ma forse “Beatissimo” e “Bimbo” sono due brani che amo particolarmente, ma ogni canzone ha una sua vita speciale e insieme compongono un corpo unico ed è difficile sceglierne una.
Marco Sonaglia
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