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Interviste

Daniele Morelli: “Il mio jazz dalla Toscana al Messico”

29 marzo 2022 by Michele Manzotti in Interviste

www.facebook.com/DanieleMorelliJazz

Si è trasferito da tempo in Messico anche se non ha dimenticato le sue origini italiane, anzi toscane (è di Forcoli, Pisa). Del chitarrista Daniele Morelli è uscito per la Off Record Label l’album La valigia dei sogni, che contiene diciassette brani eseguiti in duo insieme al percussionista Matteo D’Ignazi. Con lui parliamo del suo stile, dalla forte base jazz ma arricchita da altri linguaggi.

Innanzitutto qual è stata la molla per trasferirsi in Messico?

E’ capitato tutto molto naturalmente, nel 2011 venni invitato a un tour con una band, un periodo di molti concerti a Città del Messico. Fu un mese di esperienze talmente meravigliose che un anno dopo decisi di tornare in Messico da solo per prendermi il tempo di scoprirlo davvero e conoscere le culture locali. Iniziai a suonare da subito con i musicisti jazz messicani di Città del Messico e del Chiapas. Il jazz stava prendendo piede e dava l’idea che fosse una moda in nascere. Suonavamo quasi tutti i giorni a volte dal lunedì alla domenica, in locali diversi. Dopo aver studiato al Conservatorio di Lyon, aver partecipato a infinite jam sessions e partecipato a progetti in Europa, il fatto di suonare tanto e soprattutto con tanti musicisti diversi ha rappresentato una scuola perfetta per continuare a crescere come musicista. Poi potevo alternare la musica dal vivo con viaggi sempre interessanti fuori città, conoscendo le culture locali, le tradizioni ancestrali del Messico, che è un territorio molto vasto; sono meravigliose e per me sempre fonte di grande ispirazione.

Nel disco ha deciso di avvalersi di un solo musicista collaboratore, come lo ha scelto?

Era il periodo della pandemia. In assenza di concerti e di prove con i gruppi il tempo in casa era molto elastico. Tutti i giorni componevo qualcosa ma quando, registrandomi, iniziai a lavorare sugli arrangiamenti per varie chitarre c’era decisamente bisogno dell’elemento ritmico, batteria, percussioni. Con Matteo D’Ignazi ci conosciamo da quando iniziammo a studiare nella stessa scuola di musica, eravamo appena adolescenti. Abbiamo suonato in molti progetti diversi e sono tanti anni ormai che ci conosciamo perfettamente. Matteo non solo è un ottimo batterista con una tecnica meravigliosa e creativa, ma in maniera naturale riesce a cogliere ogni sfumatura musicale e atmosferica e ad arricchirla. Il fatto che si registrasse a distanza ha dato poi la possibilità a Matteo di sperimentare con arrangiamenti e intrecciare batteria e percussioni insieme alle chitarre. Così abbiamo iniziato a registrare, un po’ per gioco e spontaneamente, e avremmo potuto continuare così se non che arrivati a 17 tracce abbiamo deciso di fermarci.

L’album vede molte tracce, ha voluto fissare sul cd gran parte delle sue idee musicali? E c’è un’evoluzione della sua scrittura tra esse?

Mi piace sempre cercare e provare nuove forme e metodi di composizione. Quando compongo musica, anche se mi immagino il risultato finale, ho la tendenza a scrivere diverse parti nella stessa composizione, un lavoro in un certo senso più complesso rispetto alle composizioni di questo album, che sono state registrate spontaneamente senza un previo spartito. L’idea era di fissare su ogni traccia una sensazione precisa e meditarla durante tutta la durata del brano, senza mai lasciare il filo conduttore. Come se ogni traccia fosse un quadro dove fermarci pochi minuti a cogliere i dettagli. Per raggiungere l’obiettivo dovevano essere registrati quasi di getto, al nascere dell’idea o della melodia principale. Ogni brano è un viaggio introspettivo anche nella ricerca del suono, dei timbri, dei colori. A parte il lavoro di arrangiamento direi che una delle caratteristiche fondamentali di questo album è la parte ritmica. Senza importare lo stile del brano mi sono dedicato a comporre piccoli temi in tempi composti con la volontà di dipingere diversi piccoli momenti diversi nella forma e uniti dal suono delle chitarre e della batteria.

Da dove sono arrivate le maggiori ispirazioni per i brani?

Durante la pandemia mi sono trasferito un periodo a Oaxaca, fuori città, in una casa vicino Monte Albàn, la famosa zona archeologica zapoteca. E’ difficile descrivere a parole quanto suggestive siano le piramidi della montagna che potevo ammirare tutti i giorni, però è proprio qui che ho registrato questo disco e sicuramente nella musica si ascolta. A volte mi sono ispirato, come esercizio compositivo a una storia ascoltata e immaginata poi attraverso i suoni come nel caso di “Kumantuk”, che parla delle persone che hanno la capacità di trasformarsi in esseri mitici senza testa nella cultura Mixe di Oaxaca. O “Tochtli” che è l’antica parola azteca per indicare il coniglio che si vede sulla Luna da questa parte del mondo. “Occhi di puma” e “Zopilotes”, dedicate alla presenza felina e agli avvoltoi nel territorio che sempre mi hanno impressionato e tutte quelle situazioni surreali e sincretismi vari che in Messico si mescolano incessantemente. Se alle suggestioni del luogo aggiungiamo un periodo di isolamento dovuto alla pandemia dove il tempo era dilatato e c’era da inventarsi sempre qualcosa perché tutti i giorni non fossero uguali ecco che nasce “La valigia dei sogni”. I sogni sono un po’ come l’altra faccia della realtà, una seconda vita, dove tutto è immaginabile e creabile.

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