In occasione della recente scomparsa di Paolo Giorgi riproponiamo l’intervista del 2005 ai Lightshine curata da Michele Manzotti e uscita sul sito www.lightshine.it. L’intervista è ai quattro componenti Ernesto De Pascale, Paolo Giorgi, Giulia Nuti e Gianni Rosati. Le foto (c) New Pressphoto Firenze sono state scattate al Teatro del Sale e allo Studio Larione 10. La foto 5 è stata scattata al Saschall di Firenze il 29 novembre 2004, quando i componenti dei Lightshine degli anni Settanta si ritrovarono al concerto di Jackson Browne.
Siamo a casa di Ernesto de Pascale sullo sfondo di questa invidiatissima parete piena di dischi, ma soprattutto siamo qui a onorare un gruppo al quale sono molto affezionato, i Lightshine. E’un piacere avere davanti Ernesto, Gianni, Paolo, amici personali e compagni di liceo, e Giulia che è arrivata più tardi. Sono contento di avervi ritrovato e di avervi risentito suonare: le curiosità che mi toglierete spero siano utili a me per ritrovare un certo spirito e a voi a capire dove state andando e cosa vi ha spinto a riformarvi. Ma ciò che mi interessa è capire cosa via ha spinto ha ritrovare il suono dei primi Lightshine, quelli che io ho conosciuto parecchi anni fa…
Ernesto: I Lightshine si sono formati nel 1976 in un momento in cui la musica andava in direzione molto elettrica, molto precisa, delineata anche dal periodo. I Lightshine ,più precisamente Paolo, Gianni ed io che ci incontrammo prima della nascita del vero e proprio gruppo che era formato da sei persone, volevano cercare invece una musica più acustica, che veniva da territori che ci avevano appassionato come fan, e pure senza saperlo fummo immediatamente un gruppo in controtendenza.
Infatti c’era tanta America, c’era una buona dose di Inghilterra. Oggi voi componete. E’ il valore aggiunto che date a questi nuovi Lightshine o già allora c’era la tendenza non solo a re interpretare dei brani ma anche di crearne?.
Gianni: Allora l’approccio fu graduale. Cominciammo abituandoci a eseguire brani altrui quanto più possibile all’impronta, ma fin da subito cominciammo a re interpretare qualche brano che si prestava a delle aperture, o quantomeno che ci sembrava opportuno rivisitare in modo più personale. Nel giro del primo anno cominciammo anche a fare i primi timidi passi nella composizione e nell’esecuzione di brani di propria creazione. Secondo me era una serie di passaggi obbligati, poi nel tempo i brani copiati furono abbandonati, quelli che continuavamo a suonare erano sempre nostre interpretazioni, i brani che suonavamo alla fine degli anni ’70 con strofe aggiunte per esempio. La reinterpretazione andava anche nella direzione di aggiungere delle parti, non soltanto strumentali ma anche vocali, sempre in inglese però.
Nella formazione attuale non c’è un percussionista, non c’è un bassista la mia impressione che l’attuale formazioni si presti a un’interpretazione più meditata, che si rivolga all’ascoltatore non solo per divertirlo e goda dell’ascolto, ma che riesca a cogliere delle sfumature e passaggi senza magari l’energia di un brano degli Allman Brothers che proponevate allora. Paolo, vorrei che mi descrivessi questa nuova camera sonora.
Paolo: Di fatto nella formazione originale, facendo musica elettroacustica avevamo il basso e la batteria. Molto dello stile attuale è dovuto all’introduzione di Giulia perché con lo strumento che suona, la viola, stiamo tentando di sopperire (in senso positivo) alla mancanza di una parte percussiva e una di basso. La cosa che vorrei sottolineare è che comunque tutto questo va nell’ottica di uno sforzo comune, sforzo che in gran parte è dovuto agli ascolti. Una delle caratteristiche principali dei primi anni è che passavamo molto tempo ad ascoltare tanti brani e tanti diversi generi musicali e questo ci portava a un approccio positivo nei confronti di quelli che non erano brani nostri, ma che in qualche modo sentivamo nostri perché portavamo un certo tipo di carattere personale. Non sappiamo, non abbiamo ancora deciso se il futuro sarà questo o un altro. Però di fatto quello, e penso di poter parlare anche a nome degli altri, che ci soddisfa adesso è questa dimensione in cui la musica acustica trova colore nell’introduzione di uno strumento così difficile, a mio modo di veder, ma così ben interpretato da Giulia in una musica che magari apparentemente potrebbe lasciare perplessi sul suo utilizzo.
Tu Giulia da ascoltatrice sei partita per essere poi un’interprete. Hai avuto un apprendistato di ascolto di country rock o di un certo tipo di dischi americani?
Giulia: In realtà il mio back-ground non è strettamente legato al country rock ma magari al rock più classico, al progressive, al blues. Naturalmente esplorando varie cose e procedendo per artisti e generi ho ascoltato anche artisti di country rock, country e musica acustica, per quanto riguarda l’ascolto in generale. Per quanto riguarda invece il mio strumento vengo da una formazione classica per cui le prime cose che ho suonato e che ho ascoltato provengono da quel mondo, poi appassionandomi di altri generi musicali come il rock, ho cominciato ad ascoltare gradualmente cose provenienti da altri ambiti e a scoprire, cosa che tutt’ora faccio (e che penso che ogni strumentista faccia tutti i giorni), modi diversi di utilizzare lo strumento, ispirandomi a ciò che proviene da ambiti rock di altro tipo ed ascoltando violisti tipo John Cale piuttosto che Geoffrey Richardson che sono per me fonti di ispirazione.
Gianni Rosati, con cui ci vedevamo un po’ più spesso durante gli ani del liceo in un momento in cui il gruppo continua a suonare, mi dice: “Vado in America”. Mi togliete un curiosità, fu un momento in cui il gruppo dovette fare di necessità virtù e sospendere l’attività. Oppure la volontà di andare in America comunque non inficiò la voglia di stare insieme e di suonare?
Gianni: Naturalmente non è che decisi dall’oggi al domani di andare via, era una cosa che mi portò a una lunga preparazione che durò mesi perché andai là per studiare. Il fatto che la formazione già cominciava a cambiare nel 1977: c’erano già stati due cambi e si stava avvicinando, quando sarei andato via, quello che sarebbe stato il terzo cambio di formazione. Nel giro di un paio di mesi che io ero andato via un altro chitarrista si avvicendò con caratteristiche molto valide e il gruppo continuò a fare altri spettacoli. Quando tornai erano andati molto avanti, erano cambiate tante cose. Volevo però aggiungere un’altra cosa importante: il periodo in cui me ne sono andato è stato un periodo di cesura, di spartiacque, il ’77, l’avvento del punk e l’onda lunga della new wave. Quando tornai non riconobbi molti degli stili e molti dei punti di riferimento che nel frattempo erano cresciuti lentamente. Di questo loro forse non se ne accorsero, ma me ne accorsi io…
Ernesto:…prima della nascita dei Lightshine Gianni era già stato in America, Paolo è andato negli Stati Uniti la prima volta nel 1984, io sono andato per la prima volta nel 1979. Per cui c’è questa strana combinazione: nell’arco di dieci anni noi tre abbiamo vissuto l’America in tre momenti diversi però andando probabilmente fin dall’inizio a indagare le stesse cose. La nascita dei Lightshine corrisponde anche a quello che Gianni portò dagli Stati Uniti che era un valore aggiunto rispetto ai dischi che ascoltavamo alla radio, a Pop Off, Per Voi Giovani, RadioUno 21 e 29, che erano i programmi che c’erano all’epoca prima dell’avvento delle radio private. Gianni, oltre ai dischi ci porta un odore, un profumo. Io poi continuo con il gruppo ma vado in America nel 1979, do al gruppo quello che porto in quel momento.
Volevo chiedere a Ernesto dell’evoluzione da formazione di giovani che hanno voglia di stare insieme e di far divertire gli anici a qualcosa di diverso oltre ai contatti con altri musicisti…
Ernesto: Durante il periodo di assenza di Gianni, con i cambiamenti in corso, in verità lavorammo pensando al ritorno di Gianni. Il gruppo si era comunque inserito nell’ambito musicale fiorentino, anche con molte differenze, con molti problemi e con un po’ di disprezzo. Perché noi eravamo un gruppo di country rock, country and western , mentre tutti suonavano jazz, free jazz, jazz-rock , funky, virtuosismo a tutti i costi. Partecipammo a un concorso a Ponte a Ema, organizzato dalla Grs , arrivammo secondi e il gruppo giunto primo vinse suonando un brano di Billy Cobham. Conta moltissimo quello che stava dicendo Paolo, cioè gli ascolti. Il fatto di aver fatto nascere l’idea di questo gruppo, dei Lightshine, con questa caratteristica : che è quello di ascoltare la musica con profondità per tirarne fuori delle cose. Manca perché oggi si va verso la tribute band o la cover band. Io ho sempre detto in ogni formazione abbia suonato, che interpretare il brano di un altro vuol dire metterci qualcosa di proprio e formare qualcosa di proprio. Maurizio Vandelli una volta mi disse: “29 settembre sono io. Certo l’ha scritta Battisti, ma senza la mia voce non è 29 settembre”. Noi oggi cerchiamo di avere una nostra voce.
A Paolo volevo chiedere : Ernesto è ritornato sul tema dell’ascolto, non è un fatto secondario per persone di oltre 40 anni che hanno da allora compiuto dei differenti percorsi di ascoltatori, ma comunque complessi e interessanti, perché dopo vari anni siamo qui a parlare di musica di qualità. Ti chiedo se il genere che più si avvicina al vostro, il country-rock, ma anche il folk-rock inglese, ha un presente o un futuro. Questo per la tua esperienza di ascoltatore e di chitarrista-cantante.
Paolo: Io credo che tutti i generi musicali abbiamo un presente e un futuro se sono capaci di comunicare sensazioni sia a chi suona, sia a chi ascolta. Personalmente ho sempre avuto la predilezione per la musica acustica, sia essa country-rock, sia essa folk perché in qualche modo, è un musica che mi rilassa, mi provoca delle sensazioni piacevoli che cerco di interpretare in modo tale da pensare di riuscire a comunicare qualcosa anche a chi mi ascolta. Tornando al periodo dei Lightshine. Il nostro primo luogo dove abbiamo provato è stato a casa di Ernesto, i cui si disponeva di un piano elettrico, e di alcune chitarre acustiche e poche elettriche. Per cui di fatto ritornando a quella dimensione io credo che all’epoca ci rendemmo conto che non era tanto quel genere piuttosto che un altro che poteva lasciare un’impronta, ma era il nostro modo di interpretare la musica che ci piaceva e sul quale abbiamo scommesso per un certo tipo di pubblico che avevamo.
Giulia ha avuto la possibilità di ascoltare qualche registrazione del vecchio gruppo? Ce l’avete da parte, nascosta in qualche cassetto?
Giulia: Non ancora, ma ci sono? Chiedo conferma
Gianni: C’è quasi tutto
Comunque da componente attuale sei incuriosita da questo aspetto, oppure preferisci guardare avanti?
Giulia: Sono sicuramente incuriosita da come le cose sono cominciate, l’evoluzione, la storia del gruppo, anche con i problemi concreti di allora. Può essere interessante vedere magari un filmato o ascoltare qualcosa per avere l’idea non soltanto di che brani fossero eseguiti allora, ma di tutto un contesto storico, un insieme che corrisponde penso alle origini della band, all’inizio del percorso che ha portato fino a oggi.
Ernesto: I Lightshine sono nati come gruppo in casa mia nella mia mansarda di via Vittorio Emanuele, quando abbiamo ricominciato, lo abbiamo fatto qui, in casa. Dal punto di vista etico, e questo è qualcosa che a loro ho sempre detto, io desideravo ricominciare da dove siamo partiti. Chiaramente, parallelamente 30 anni dopo però con gli strumenti acustici, qui c’è un pianoforte elettrico, le chitarre acustiche e la viola. Questo ci permette di lavorare molto sulle composizioni e molto sulla nostra armonia . Poi penso che Gianni volesse aggiungere qualche cosa degli archivi che conserva insieme a Paolo, gelosamente
Gianni: Diciamo che c’è stato uno sforzo nel cercare di preservare il materiale e di evitare che finisse nell’oblio. Abbiamo rastrellato tutte le registrazioni sulle quali potevano rimettere la mani, Paolo le ha risistemate un po’, abbiamo accumulato tutta la documentazione per nostra futura memoria.
Ernesto: Però Gianni, aggiungi qualcosa sui tuoi archivi manoscritti. Perché quelli musicali sono indubbiamente un cimelio indimenticabile, però Gianni è andato ben oltre, magari due parole io le direi.
Gianni: Ho tenuto traccia di quello che avveniva, e ho tenuto una cospicua documentazione cartacea.
Una volta io, studente di pianoforte e incuriosito dalla scena che avevo attorno chiedevo un parere a persone che già suonavano nei gruppi per vedere come tentare di trovare un proprio spazio. Gianni mi disse una frase e non so se vi si riconosce: “Senza lo spartito non si va da nessuna parte”. Ovviamente è un’affermazione del 1977. Quasi 30 anni dopo sei sempre dello stesso parere oppure era un momento di legittimità nei confronti della musica, o di rispetto nei confronti della scrittura del musicista?
Gianni: La frase va inserita in un contesto e dipende di cosa stavamo parlando. Per certi versi è ancora così, per altri non è detto. Lo spartito è un punto di riferimento essenziale però ti serve su certe cose, serve per partire, serve per inquadrare i punti di riferimento del brano, poi però l’interpretazione è tutta libera.
Ernesto: Quando Gianni partì per gli Stati Uniti e Paolo lasciò i Lightshine la prima volta fu un momento molto complesso, complicato perché io lavoravo in un negozio importante di dischi di importazione e che proprio in quel momento si accorse del punk (io andai a Londra alla Rough Trade a fare acquisti e a veder un po’ di gruppi). Per cui da una parte era venuto a mancare il cantante principale dei primi Lightshine (Paolo, noi cantavamo secondariamente con vari risultati) d’altra parte Gianni che comunque è un uomo con un approccio molto razionale e preciso, anche quello di riportare le cose insieme. Presi la situazione in mano nei limiti del possibile, però molto affascinato da quello che stava accadendo intorno. Oggi la musica acustica, il folk americano, la musica country – dopo aver riempito gli stadi con artisti che sono diventati celebri creando una scena – è tornata alla semplicità e a una certa originalità. Questo io lo sento moltissimo, sento che quello che stiamo facendo può essere fortemente in tema con quello che sta avvenendo nel cuore delle generazioni più giovani. Quando Paolo se ne andò e lasciò il gruppo c’era davvero da muoversi in un altro modo e da guardarsi un po’ intorno. Furono anni importanti di cambiamenti che comunque fortificarono anche in maniera decisiva in noi musicalmente il resto degli anni ottanta a venire.
Parlavamo di mosche bianche nella scena fiorentina; negli studi di Radio Tele Arno,la radio con cui collaboravo, studi siti in via Benedetto da Maiano, incontrai esibirsi un chitarrista che si chiama Giovanni Unterberger e che era comunque un altro personaggio che portava avanti la sua musica con la sua chitarra acustica e uno stile molto semplice. Paolo, quali erano le altre situazioni di questo tipo a Firenze, di altri gruppi o altri musicisti che in qualche modo andavano verso una direzione non dico unica, ma almeno parallela alla vostra?
Paolo: Sono sincero, a livello di musica country rock secondo me non c’erano molte alternative. Ernesto ha colto il punto dell’evoluzione che stava subendo la musica. Difatti si tendeva sempre di più ad ascoltare musica – concedetemi il termine – elettrificata o elettrificabile; stavano venendo fuori le prime tastiere elettroniche, l’esecuzione stava subendo una sorta di trasformazione che andava verso un colore che, a livello di impatto, forse riusciva anche a catturare l’attenzione di tante orecchie di fatto però, secondo il mio punto di vista, perdeva l’essenza principale della musica. Credo che all’epoca, nell’ambito fiorentino, eccetto qualche caso, non ci fosse però alternativa per questo tipo di musica. Molti gruppi, erano essenzialmente gruppi con base elettrificata.
Ernesto: Aggiungo qualcosa, qualche nome così che può servire. Di personaggi che suonavano musica acustica c’erano tanti: Giovanni Unterberger, Luigi Fiumicelli, che erano comunque professionisti Livio Guardi, Patrizio del Duca (arrivato un po’ dopo). Quando sono arrivati anche per noi era importante dividere l’esperienza con qualcuno. Lo scarto di età, quando hai 20 anni e vedi uno di 17, lo vedi in un’altra maniera, però noi avevamo bisogno di non sentirsi del tutto soli. E sono persone che hanno fatto comunque un percorso, Livio Guardi ha suonato recentemente nel disco di Massimiliano La Rocca, Andrea Bonardi ha un progetto dedicato a Joni Mitchell, Patrizio del Duca è stato il più coraggioso di tutti: con il blues che ha suonato ha rifiutato qualunque compromesso. Inoltre ci fu la nascita della Lizard, Stefano Lugli (dello studio Planet Sound, un tecnico con cui ho lavorato tanto), Marco Lanza, fratello maggiore di Saverio e fotografo, e tanti altri fecero il primo disco della Lizard. Questo avvenne obiettivamente un po’ dopo i giorni dei nostri esordi. Infatti Giovanni Unterberger nel frattempo ci contattò…
Paolo: La parentesi con Giovanni Unterberger fu per noi molto piacevole perché Giovanni venne a sentirci quando suonammo al cinema Faro DI Firenze, dicembre 1976, e rimase piuttosto impressionato da un certo tipo di comunicativa che avevamo e che per l’epoca almeno su Firenze non era così scontata. Quindi ci invitò in una trasmissione televisiva della quale siamo riusciti a recuperare la trasmissione video che è in assoluto credo il nostro primo video a cui possiamo fare riferimento. Fummo quindi invitati in trasmissione da Unterberger all’ex Canale 48 e ci chiese di fare una breve performance dal vivo. Per noi all’epoca (le televisioni private stavano nascendo, fu per noi un evento, paragonabile come se oggi chi invitasse Canale 5, forse di più, dato che erano molto seguite) e da questo nacque un breve periodo di collaborazione con Giovanni nel quale lui ci chiese di accompagnarlo nella diffusione del disco che aveva fatto, Facemmo una serie di prove, poi però per qualche motivo non riuscimmo a trovare una sorta di rapporto più lungo, poi la cosa decadde. Di fatto non abbiamo mai suonato con lui una volta in pubblico, ma abbiamo provato svariate volte a utilizzare brani suoi.
Ernesto: Da lì nacque anche la voglia comunque di tentare di registrare brani originali perché proprio in quel periodo c’era Vittorio Nistri (che adesso guida un gruppo che si chiama Deadburger e che ha continuato per un coraggioso percorso di sperimentazione) che aveva un piccolo studio in viale Don Minzoni dove andammo a registrare 3 brani, due di Paolo “Song for You” e “Mrs everything” e uno del bassista Sandro Ulivi e mio, “Sunset beach” . Qui siamo a un anno circa dalla nascita del gruppo e questa voglia di interpretare in maniera personale la musica si era solidificata attraverso il fatto che Unterberger ci aveva in qualche modo individuato; rimanemmo molto colpiti da questo fatto. Poi nacque la voglia di registrare: dopo un anno si cominciava a delineare un percorso originale da poter intraprendere.
Gianni: Un salto di qualità!
A Giulia vorrei rivolgere una domanda sul metodo di lavoro, l’approccio a un brano, nel caso delle reinterpretazioni
Giulia: L’approccio di rentrepretazione secondo me parte dall’ascolto, come dicevamo prima. Per cui c’è alle spalle un attento lavoro di selezione del brano perché cerchiamo di fare e di interpretare dei brani che possano adattarsi bene all’immagine del gruppo, a noi, a chi deve interpretare. Quindi in qualche modo che possano essere da una parte credibili e allo stesso tempo veramente reinterpretabili, per cui noi, quando andiamo a eseguire ciò che abbiamo preparato in pubblico, possiamo offrire non un’immagine sbiadita di qualcos’altro ma veramente una nuova versione o interpretazione.
Ovviamente sposto la domanda sulla composizione. Ernesto, tu lo fai abitualmente: non hai mai smesso di scrivere musica e scrivere testi, Paolo e Gianni sono musicisti nel cuore, anche se nella pratica svolgono altre attività…
Ernesto: Paolo è un compositore a tempo pieno. Abbiamo stili diversi però possiamo parlarne. Gianni è più un compositore nel senso musicale del termine ha il ruolo di condensare le parti musicali a contrasto delle parti vocali e di accompagnamento. Poi i percorsi sono differenti l’uno per l’altro. Riversiamo dentro quello che pensiamo sia giusto per il gruppo. Io ho detto a loro, quando abbiamo ricominciato: ”portiamo brani nuovi” così che i brani suonati fossero scritti adesso, apposta per il gruppo. Paolo scrive moltissimo, in un genere assolutamente proprio. A molti anni di distanza dalle prime composizioni di Paolo ho ritrovato una sua cifra di scrittura e mi sembra un gran pregio per un compositore.
Paolo: Io svolgo, nel quotidiano,un altro lavoro che mi porta ormai da diversi anni molto spesso a essere fuori casa, in trasferta. Di fatto la musica non potrebbe mai essere assente dalla mia vita: ho scritto il mio primo brano nel 1972 e adesso sono oltre ai 130 brani scritti. Perché scrivere a suo modo per me è un compagno di viaggio. Ho scoperto tante situazioni di vario genere: quando uno è adolescente i brani che scrive sono di comunicazione, dedicati a un certo tipo di amore o di affetto. Maturando uno ha voglia di scrivere brani anche su situazioni interiori, temi sociali o altre cose. Io viaggio sempre con un quaderno in cui appunto tutto in una sorta di registratore che poi mi ritorna al momento in cui prendo la chitarra in mano. Quindi il comporre è una parte di me
Per Gianni invece?
Gianni: E’ diverso, non ho quasi mai composto un brano completo, progettato , costruito, sviluppato con parti per tutti i compagni. Mi trovo spesso nella condizione di pensare come rifinire o punteggiare i brani che suoniamo, quindi mi sono sempre trovato a dire come potrei guarnire, decorare, rifinire. La composizione per me è un traguardo da raggiungere; sto lentamente entrando nell’ottica di progettare qualcosa da proporre.
Ernesto, per te il nome Lightshine vuole dire questo presente, il passato che abbiamo ricordato prima, ma anche un altro passato. Tu prima parlavi di una situazione in divenire, vuoi ricordare cosa sono stati gli altri Lightshine?
Ernesto: I Lightshine successivi agli esordi, a questi quasi due anni in cui il gruppo è stato insieme con Paolo come cantante solista, diventarono nel corso del tempo un’altra formazione. Hanno inciso un album a cavallo tra il 1981 e il 1982 e la musica si era molto evoluta. C’erano stati molti cambi di formazione, entrati e usciti batteristi uno a due, poi due batteristi e un percussionista. Portai con me l’esperienza newyorchese, città in cui avevo imparato a capire il lessico della musica nera, ma soprattutto i nodi cardine del funk dell’epoca, perché poi il punk negli Stati Uniti ha un carattere molto ritmico, non è solamente un attacco, un’aggressione sonora, è invece uno scarto ritmico con una curva a gomito. Prendemmo questo tono più deciso. Ecco: i Lightshine di dopo gli esordi sono un gruppo molto più deciso e aggressivo, mentre quello degli esordi era un gruppo più accogliente. Negli anni successivi persone sarebbero andare e venute nel gruppo. Gianni per primo, in verità non ha mai abbandonato, ha fatto avanti e indietro. Poi io sono partito per il militare. Quando tornai proposi una strada che non venne imboccata. I Lightshine continuarono per un altro anno o due. Basti solo pensare che ci fu un periodo di qualche mese in cui nella formazione non c’era più nessuno dei sei componenti originali: il gruppo andò avanti lo stesso! . La formazione dei Lightshine però fornì musicisti a tante altre band fiorentine: Gianni con molti componenti del gruppo si spostò in una band di blues già esistente, fondata da Luca Lupoli (con Ernesto e Stefano Focacci in Implosion(1974/75), Luna Blues Band, che cambiò nome in Driftin’’, Paolo entrò a far parte di Wild Fire (prima e seconda formazione), poi tornarono tutti quanti insieme prima con Paolo e senza Paolo in una formazione che forse esiste ancora oggi.
Paolo: Esiste ancora oggi: iniziò come Fm, i componenti sono più o meno gli stessi, ma non hanno lo stesso nome.
Ernesto: Il fatto che il gruppo abbia fornito poi musicisti e quindi creatività, perché anche nell’interpretazione del blues ci vuole creatività è comunque un segnale molto importante. Vuole dire che le energie non sono andate disperse da questo punto di vista. Comunque quando i Lightshine hanno fatto il loro primo disco avevamo 23 anni, eravamo piuttosto giovani. C’è chi ha fatto dischi a 17/18 anni, li invidio sicuramente. Però per l’Italia avevamo portato alla luce un disco diverso dalla new wave: c’eravamo portati appresso qualche cosa, qualche tema musicale lontano che riappare nell’ EP dei Lightshine: si chiama First week in summer che viene da prima dei Lightshine, viene dagli Implosion, dalla prima band nata nella mia mansarda di via Vittorio Emanuele, e quello comunque è un termine di identificazione, un codice personale che ti porti appresso. Credo ce ne siano molti anche adesso, perlomeno suonando insieme, ci sono dei codici, delle cose che trovo quando Paolo propone un arpeggio a contrappunto di una parte vocale. Basta pochissimo, sono cose che devono soprattutto servire tra di noi. Fu un percorso comunque formativo.
Parlando di formazione, ritorno a Giulia: tu suoni in due gruppi con Ernesto, i Lightshine, e gli Hypnodance, altra formazione storica tornata ora sulla scena. Ti volevo chiedere cosa trovi in comune tra le due esperienze: non dico da un punto di vista di repertorio perché sono ovviamente diversi e lo spirito è diverso. Dico come approccio musicale, specialmente per uno strumento che non è la chitarra o la batteria, ma è la viola, che come anche hai sottolineato te è sempre legato all’ambiente classico.
Giulia: Io penso che il discorso sia particolarmente divertente perché da una parte c’è l’approccio totalmente elettrico, dato che suono con un amplificatore, mentre nei Lightshine l’approccio è prevalentemente acustico, il che non vuole dire che magari in futuro non venga ampliato. Per il momento però è questo lo stilequindi anche la ricerca sonora va in una direzione diversa. Magari in un tipo di formazione acustica in questo modo è più facile sfruttare anche il background classico e allo stesso tempo spinte che possono venire da tradizioni popolari piuttosto che dalla musica acustica, country & western, folk, mentre in una situazione di tipo elettrico viene da pensare più a violinisti come Jerry Goodman, quindi ad un approccio sonoro diverso che esplora mondi diversi. Senza scendere nei dettagli del repertorio direi che la differenza fondamentale è l’utilizzo diverso dello strumento.
Abbiamo già prima rievocato l’intento di ricreare un certo tipo di suono e ricercare le ragioni per cui lo avete fatto. Ti sei ritrovato con Ernesto e con Paolo con la chitarra in mano: come è stato quel momento:? C’è qualcosa dentro che uno sente che può essere più o meno forte, un’emozione, o forse anche un po’ il recupero di certe sensazioni che avevi una volta? Cosa è successo, c’è stata un’alchimia particolare che hai percepito?
Gianni: Eccome. Anche se comunque è stato piuttosto graduale , perché in questo Ernesto è stato scaltro. L’approccio è stato lento e progressivo, abbiamo cominciato pensando di fare una cosina poi questa cosina è diventata un po’ più complessa, poi questa cosa si è sviluppata un po’ di più, poi sono diventate due, poi magari due e mezza quindi tre. Sta di fatto che mi sono trovato dentro a questa ripartenza del gruppo (Lightshine reloaded) quasi senza accorgermene ed è stato delizioso, suggestivo per tanti versi. Poi si è materializzato molto rapidamente quando siamo andati in studio e abbiamo inciso il primo brano in mezz’ora: io mi sarei aspettato dei tempi abbastanza dilatati, ma anche questi faceva parte probabilmente di un piano più articolato.
Come è stato trovarvi in uno studio di registrazione, perché a quel punto io penso che mentalmente sia un punto di partenza per una nuova vita musicale, ma me lo sarei anche visto come un punto di arrivo di un percorso partito tanti anni fa?
Paolo: Io credo che abbiamo l’età giusta per capire che tutti i punti di arrivo debbano essere considerati punti di partenza, questo è il trucco per qualsiasi cosa della vita di ciascuno di noi per affrontare le cose in modo positivo. Credo che l’esperienza in studio che abbiamo avuto adesso con i Lightshine abbia rappresentato per noi il momento di partenza, cioè di fatto quello che era successo dopo un po’ di tempo dai primi Lightshine, ma è stato il milestone che in qualche modo ci ha unito. L’atmosfera che abbiamo creato, questo mi piace sottolinearlo, può darsi sia casuale, ma non voglio credere che sia casuale il fatto di risuonare e di riprovare a casa di Ernesto così piena di dischi. Anche se siamo cambiati noi, l’atmosfera è la stessa. L’inserimento di Giulia non ha creato turbativa, anzi ha aggiunto carattere positivo al gruppo.
Ernesto vive di musica 24 ore su 24, Giulia sta trovando una sua dimensione ma è sulla stessa strada, Gianni e Paolo, fanno altre attività a cui aggiungono la musica, togliendo momenti al loro tempo restante. C’è qualcuno che vi ha detto, ma chi te lo fa fare? Oppure, era ora che ricominciassi?
Gianni: C’è qualcuno che mi ha detto che non avremmo mai dovuto smettere.
Paolo: Qualcuno che ha detto: è giusto il momento, ovviamente tutto deve viaggiare con una sinergia personale che deve rispettare determinate cose che abbiamo, però ribadisco, credo che siamo persone che la musica non la possono lasciare, non è il lavoro impiegatizio dove uno chiude l’ufficio. Credo che la musica in questo tipo di interpretazione sia qualcosa che viaggia in parallelo. Se quindi abbiamo deciso di andare avanti con questa formazione e con questo spirito credo che si riesca a far convivere con tutte le attività che le persone della nostra età hanno.
Ernesto: Oggi è un po’ diverso rispetto a una volta, perché anni fa quando facevi musica se volevi star dentro il music business dovevi tentare una sorta di scalata. Al di là del fatto di essere persone adulte e di prendere le misure in un’altra maniera, oggi grazie a un serie di meccanismi di comunicazione – e anche di opportunità che ci sono state date e che ci siamo creati – in un modo o un altro possiamo gestire la cosa con una pertinenza che io credo quando avevamo 18 anni sentivamo ci mancasse. Non riuscivamo a trovarla perché eravamo piccoli noi e perché c’era la discografia, poi, a scalare, c’erano i gruppi che facevano la professione, poi i semiprofessionisti, poi i dilettanti. Oggi i Lightshine hanno già la propria area di azione, possono crearsi una propria scena perché ritengo che ci siano tutte le caratteristiche necessarie da un punto di vista contenutistico – per primo il suono – le composizioni, la formazione stessa. Intorno a noi girano delle cose di questo tipo e possiamo comunque sia parlare a tante persone. E’ chiaro che ognuno di noi rispetto all’impegno necessario sul momento decide di conseguenza!. Le decisioni non possono essere cosmiche a tutti i costi, le decisioni vanno prese da una settimana a un’altra, da un mese a un altro, non sei più un ragazzo di 18 anni che dice ‘smetto di studiare’, oppure il genitore che dice al figlio ‘se non studi vai a lavorare’. E’ diverso, si tratta di giocare bene la partita e tentare di far venire gli altri a giocare a casa tua. Una volta non si poteva, si doveva andare da un’altra parte (sia America o Milano o Roma o a Londra), per tutti i musicisti è stato così. Oggi si può portare la partita in casa nostra o andare a giocare in campo neutro, molto lontano, non per forza sempre in trasferta. Ci possiamo intersecare in un’altra maniera, amici, contatti; una volta una lettera impiegava 10 giorni ad arrivare. Oggi mandi un Mp3 e riesci a fare un brano in uno studio dall’altra parte del mondo.
Paolo: Fermo restando che poi senza lo spartito non si va da nessuna parte…
Gianni: Sì! però lo spartito può viaggiare se non per Sms, per e-mail e quindi una bozza di struttura di un brano può essere rivisitata varie volte nella stessa giornata da persone che stanno lontane e che neanche si vedono. Sono opportunità che diamo per scontate ora, ma se andiamo indietro nel tempo queste erano fantasie marziane: ci dovevamo incontrare per decidere che cosa fare. Qui arriviamo spesso già con le idee sviluppate perché c’è un continuo scambio di contributi di idee anche quando non ci vediamo. Cosa che effettivamente è molto produttiva.
Ernesto: Questo in qualche modo riprende lo stile originario dei Lightshine che rispetto ai gruppi dell’epoca 1976-77 erano diversi. I gruppi andavano nello stanzino a provare e facevano un gran casino, noi eravamo molto più disciplinati – questo è il un termine giusto! – non eravamo quelli precisi a tutti i costi, pur avendo avuto anche la problematica di essere visti come quelli precisi, ma eravamo sicuramente responsabili. Questa disciplina, in altre forme, esiste ancora: per esempio l’apporto di Giulia che ha l’esperienza della musica classica è un apporto in questo senso. Con lei si può parlare di disciplina musicale, non è il ragazzo di 19 anni a cui tu dici una cosa e quello risponde “a me che me ne frega, alziamo il volume”.
A proposito di canzoni, torniamo alla musica. Prima Ernesto aveva espresso la speranza di lavorare in gran parte su brani originali. Certo mi ha fatto piacere a una vostra esibizione sentire un classico come John Barleycorn, così come mi ha fatto piacere che c’è questa partecipazione al progetto dei Fairport Convention. Oggi forse non potreste fare quella Blackbird a cappella con il solo di Paolo alla chitarra o Tequila Sunrise con il batterista che cantava però vorrei sapere su che tipi di brani, di musica, vi avvicinate per dire ‘Beh, è una buona idea, possiamo rifare questo brano e recuperare lo spirito di questo artista.
Paolo: Credo, che la direzione e la forchetta siano molto più ampie anche per amalgama di gruppo, ma la direzione finale sia quella di focalizzare l’attenzione su quelli che sono i brani nostri. Quindi la produzione che in questo momento stiamo seguendo, con l’arrangiamento di brani di altri certamente, ha una grossa componente di musica che nasce acustica ma non necessariamente. Diciamo che abbiamo esperienza e abbiamo provato dei brani in scaletta che sono nati elettrici e che però abbastanza facilmente sono rendibili acustici, come Just a song before I go, un brano elettrico che noi facciamo in versione acustica con alcune reintrepretazioni e alcuni accorgimenti che le danno un connotato. Devo dire che comunque la cosa per me molto piacevole è che autori che all’epoca seguivamo sono ancora vivi dentro di noi e nel cuore di molti altri.
Ernesto: Abbiamo scelto innanzitutto brani su cui eravamo sicuri di poterci muovere, ma repertorio degli ultimi anni abbiamo scelto un pezzo dei Phish,una formazione che ha segnato un grosso passo avanti nei gruppi legati a canzone e improvvisazione. L’altro giorno abbiamo preso in mano una vecchia canzone dei Creedence per fare un brano semplice un po’ famoso. Io ho però etichettato il brano dicendo ‘non vorrei fare Take it Easy degli Eagles, ma preferisco fare Lodi dei Creedence Clearwater Revival che è l’embrione di Take it Easy. Abbiamo preso John Barleycorn per la bellezza della storia, il brano di Fairport, Book Song, per registrarlo per l’album tributo prodotto da Il popolo del blues, un brano di Crosby e Nash come Just a song before I go. Abbiamo parlato praticamente fin dal primo giorno di fare un brano di Neil Young, proprio nell’ottica di questi artisti che hanno superato i tempi. Oggi nella musica rock sia elettrica sia acustica questo è un grandissimo punto di riferimento. In questo momento abbiamo optato su un brano che lui suona da solo quindi possiamo aggiungere tutto perché è anche un po’ questo è il meccanismo: andare a prendere un brano che abbia una struttura differente da quella della formazione e andarlo a trasportare in questo tipo di logica. I brani altrui servono per fare una serata, per portarla bene in una certa maniera. C’è inoltre la voglia di togliersi anche qualche soddisfazione con Willin’ dei Little Feat. Poi abbiamo aggiunto Can’t find my way home che è un pezzo inglese dei Blind Faith che cantava Steve Winwood, Giulia canta un brano che originariamente è un brano elettrico di Nick Lowe dei Rock Pile, Cruel to be Kind. A raccontarlo sembra più sfaccettato di quello che è. Ciò che conta è che funzioni. Le esibizioni che abbiamo fatto dal vivo per noi rappresentavano anche test, sono state gradite. C’era questa necessità di passare da un luogo anche molto piccolo e intimo di passare dal chiuso all’aperto in città per poi andare a finire in un posto dove non ci conosceva nessuno, ci sono dei passi che vanno fatti.
Abbiamo parlato di tante cose, ma cosa ascoltate più volentieri in questo periodo?, anche per fare capire a chi leggerà questa intervista cosa in questo periodo avete più nel cuore, anche perché ci sono momenti nella vita in cui si sente più volentieri un tipo di musica piuttosto che un’altra e magari può essere anche uno stimolo di lavorare meglio per un musicista…
Paolo: Io rispondo così: io cerco di sentire tutto, ma ascolto sempre Neil Young, James Taylor , Crosby, Stills, Nash & Young perché è sempre musica che mi provoca tante sensazioni.
Gianni: Quest’estate ho ascoltato tantissima musica dei Grateful Dead: era il decennale della morte del loro chitarrista Jerry Garcia, allora mi ero dato questo compito per le vacanze: riesaminare e riascoltare una parte del loro repertorio. Sono uno dei miei gruppi preferiti in assoluto ma non credo che continuerò ad ascoltarli con questa assiduità nei prossimi mesi. Non ho una musica che ascolto con particolare determinazione in un certo momento, a parte il caso di questa estate. Ascolto rock classico, country -rock, blues-rock, progressive, jazz tradizionale, folk, abbastanza eterogeneo. E un po’ di Beatles ogni tanto.
Ernesto: Quello che mi interessa di più è ascoltare artisti nuovi, in questo ultimo anno ho individuato questo filone di alternative country,quello che si chiamava Americana fino a qualche tempo fa o alternative folk. Sono andato in Inghilterra quasi apposta per veder questi artisti, sento che c’è un movimento di trentenni e ventenni che non è molto distante dal mondo dove viviamo. Anche se come Lightshine siamo ancora in questa fase ascetica, vicino alle rifiniture, a fare un genere a scegliere un brano originale e ci va bene così. Una fase magari che preferisco, dal punto di vista produttivo, tenere un po’più lunga. poi ci aiuterà nella stessa maniera come nel 1976 ci aiutò un periodo lungo di gestazione. Tornando agli ascolti mi sveglio la mattina sperando sempre di meravigliarmi, attendo negli album che qualche cosa faccia dire ‘questo cambierà tutto’. Ciò naturalmente non può succedere. Sento gli album degli artisti particolarmente valorosi: Dylan, Neil Young, De Gregori, la musica italiana, Battisti, mi colpiscono là dove ritengo che una buona canzone è una canzone che racconti una bella storia. Se c’è una bella storia, c’è una bella canzone e una bella canzone conterrà una bella storia. Una bella storia non importa che sia complicata, difficile, l’importante è che possa avere un senso anche universale, una cosa piccola che possiamo toccare tutti quanti. Credo che questo sia il grande segreto del cantautorato inteso come stile songwriter non un cantautorato classico all’italiana. Questa musica acustica basata molto nel rapporto di svolgimento canzone-testo cantato che aiuta molto la comprensione della canzone
Giulia: Io la cosa che sto ascoltando di più è il progressive, non perché in realtà sia il mio genere di musica preferito ma solo perché in questo momento sto cercando di scoprire approfonditamente il genere. Sono molto incuriosita dagli album minori magari di gruppi meno conosciuti. Poi in realtà mi piace ascoltare anche musica di tipo diverso, non solo progressive. Però in questo momento è ciò che sto ascoltando di più.
A casa di Gianni Rosati in bella vista c’erano CSN & Y e altri autori da lui amati, dall’altra parte, seminascosti, quasi per additarli a pubblico ludibrio, c’erano altri dischi di gruppi progressive di allora che Gianni aveva acquistato in un periodo precedente e dopo aveva non dico rinnegato, ma accantonato. C’era anche questo aspetto fisico dell’accantonamento…
Ernesto: Perché a 18 anni si è così, molte cose poi date via vengono ricomprate.
Gianni: Quando io andai in America vendetti tutti i miei dischi. Dovetti liquidare tutto per monetizzare perché volevo comprarmi la chitarra e farlo laggiù, quindi dovevo portarmi dietro molti soldi. Più ne avevo e meglio era, così liquidai la mia collezione che allora era di 300/400 dischi penso di averli ricomprati tutti o quasi tutti negli anni e di averne presi anche molti altri.
E a proposito di dischi vorrei tentare di chiudere il cerchio con una curiosità che deriva da un’affermazione di Gianni sui vari passi che insieme state facendo e che state condividendo in maniera entusiasta ogni giorno di più. E’ nei vostri progetti anche un disco che contenga questo nuovo spirito dei Lightshine?
Ernesto: Un gruppo si deve porre sempre molte finalità. Come dicevo, oggi è tutto un po’ differente rispetto a una volta, per porsi delle finalità bisogna crearsi una scena che è poi anche il motivo di questa intervista. Bisogna cercare un’area di appartenenza, di condivisione, di sperimentazione con altre persone, preparare il terreno. E’ chiaro che non c’è la fretta del ventenne perché non c’è mercato discografico. Noi siamo più fortunati di quelli che lo cercano oggi, perché non abbiamo questa necessità però il supporto, il cd, se c’e, ci aiuta. A meno che non si voglia fare una scelta ancora più forte e un domani non si dica: partiamo per un mese di ricerca, andiamo in un posto – ce lo possiamo permettere- dove pensiamo che qualcun altro abbia fatto qualcosa di speciale, dove pensiamo di aver sentito qualche cosa di straordinario, in uno studio dove hanno fatto un disco che ci piace. Quella è un’altra finalità, ed è la finalità che a me più interessa.
Paolo: Di fatto l’ascolto della musica altrui se sfocia nella composizione consapevole allora è una mera copia, se invece lo fa nella composizione inconsapevole è il segno di qualcosa che è stato sublimato all’interno e a quel punto diventa una cosa personale. Di fatto credo che la musica altrui serva a questo, almeno a me serve a questo. Capire come si vada da una tonalità all’altra in maniera non banale è una cosa che richiede tanto ascolto per diventare tua. A quel punto la puoi riciclare in un modo più o meno originale
Ernesto: Abbiamo fatto una scelta, un’operazione che ci ha riportati indietro nel tempo, mi ha gratificato moltissimo anche dal punto di vista emozionale. Ci siamo seduti attorno a un tavolo con un brano di Paolo, abbiamo cominciato a parlarne ed è venuto fuori tutto, è stata un’operazione complicata di outing, come si suol dire oggi, per tutti. Una cosa che ho imparato in pubblicità,è che non bisogna possedere il brano, bisogna pensare che se quel brano non funziona, si va avanti. Per tanti anni mi ricordo, anche dentro i gruppi, le discussioni per non mettere le mani su un brano. Invece bisogna superare anche questo meccanismo e affrontarlo vedendolo dalla parte opposta scambiando sempre questo ruolo, tentando di trovare flessibilità, ma farlo noi insieme con Giulia intorno a un tavolino senza nemmeno gli strumenti comunque è stata una dimostrazione di riportare i nostri percorsi nel lavoro. E non l’abbiamo fatto al primo giorno, l’abbiamo fatto dopo due mesi che suonavamo insieme, a dimostrazione che potevamo riaffrontare con quello stesso amore, passione, dedizione che avevamo avuto ascoltando i brani altrui quando avevamo 18 anni.
Michele Manzotti
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