Poniamo per ipotesi che aveste incontrato Jeff Beck al bar, pensate che vi avrebbe parlato degli Yardbirds, di Clapton, di Jimmy Page, Donovan, Stevie Wonder, Rod Stewart o magari di Jan Hammer, Tim Bogert, Carmine Appice, solo per menzionarne alcuni? La risposta e’ probabilmente no. Da meccanico provetto, avrebbe cominciato a tediarvi con storie di ruote, cilindri e cilindrate, bulloni, cambi ecc… come molti gentlemen inglesi della sua epoca. E magari di quella volta che rischio’ di rimetterci la pellaccia nel 1970. Non crediate neppure che fosse uno tutto genio e sregolatezza, anche se musicalmente parlando era uno di poca pazienza. Meno ossessionato dal Blues di Clapton, meno rockettaro di Page, gli si potrebbe imputare la svolta pop degli Yardbirds, gruppo che ha suonato di tutto e di più, passato in archivio come gruppo di British Blues forse per un disco live con Sonny Boy Williamson (Mercury, 1966), il quale, riportano gli storici, non sarebbe stato entusiasta della collaborazione. Ma in quelle registrazioni, per sua fortuna, Beck non c’e’. Curiosa la vita. Eppure gli Yardbirds hanno marcato quel periodo del British Blues per la loro originalità, là dove si cercava un’ortodossia, gli Yardbirds rompevano gl’argini con un sound pieno di altre influenze, come se non sapessero esattamente quale fosse la direzione da prendere. Ho avuto l’opportunità di vedere dal vivo, accanto ad Ernesto, Beck, Bogert and Appice nel 1973 al Crystal Palace e di quei giorni lontani mi e’ rimasto il ricordo di un sound possente ma non pesante, un trio quasi funk-rock tanto che uno dei loro cavalli di battaglia era “Superstition” di Stevie Wonder. Bogert e Appice (ex-Vanilla Fudge, ex-Cactus) erano una delle migliori sezioni ritmiche del tempo, Beck metteva il lesso dentro al brodo. Funambolico, veloce, maestro nel vibrato, nel feedback e nell’utilizzo del Fuzz, marchingegno distorsore dell’epoca, ma soprattutto niente assoli prolissi, niente lungaggini sul manico, solo pennellate d’autore. E più tardi, in una delle sue tante impersonificazioni, ossia in Blow by Blow, (Epic, 1975) Beck dara’ lustro ad un pezzo bellissimo di Stevie Wonder, “Cause we’ve ended as lovers”, con un mitico assolo, omaggio a Roy Buchanan.
Il seguente disco, “Wired” con Jan Hammer e Narada Micheal Walden, era un filino meno ispirato ma sempre un prodotto di gran classe, dote mai mancata a Beck, nella scia Jazz-Rock Fusion, genere peraltro ancora in voga. Gl’anni son passati rapidamente, tra un concerto di beneficenza e una reunion, più a coltivare un mito che a sviluppare nuove idee, lanciando bassiste di gran valore come Rhonda Smith e Tal Wilkenfeld. Quando chiamato alla tenzone, Beck ha reiterato la sua originalità e la sua versatilità come artista, un caso quasi unico, per un musicista che ha suonato in molti stili. Speriamo che qualche giovane chitarrista lo studi approfonditamente invece che continuare a copiare i soliti riffs scontati. Se qualcuno volesse investire x euro negli artisti suddetti, il consiglio e’: prudenza! Di Beck vale la pena avere i due dischi del Jeff Beck Group (Rough & Ready e JBG, entrambi Epic, 1971-72), soul-blues funkeggiante con Middleton alle tastiere, Phil Chen al basso, Bailey alla batteria e il cantante Bob Tench, la sua formazione migliore. Buono anche il precedente “Truth” (Epic, 1968) con Rod Stewart e Nicky Hopkinks, che si potrebbe affiliare al British Blues. In tempi piu’ recenti, buono “Performing This week …. Live at the Ronnie Scott’s” (Eagle 2008). Molto piu’ difficile districarsi nella discografia degli Yardbirds, piena di ristampe, ristampe di ristampe, bootlegs veri o finti. Salomonicamente, i “Live at the BBC” (BBC, Repertoire) potrebbero dare una visione complessiva del loro lavoro. In casa, senza saperlo, potreste avere un collectors’ item, “More Golden Egg” (Trademark of Quality, 1974), specialmente se all’interno ci fossero 3 fogli A-4 contenenti l’intervista a Keith Relf, cantante e membro fondatore degli Yardbirds.
Luca Lupoli