Lascio l’anomalo clima estivo italiano per il tipico tempo inglese, che come previsto mi accoglie con freddo e pioggia. Ma poco importa, la destinazione è il London Palladium, l’appuntamento è con i Tedeschi Trucks Band.
La band è reduce dal quadruplo lavoro in studio “I Am the Moon”, ispirato al poema persiano del 1200 “Layla e Majnun” che già aveva ispirato l’album “Layla and Other Assorted Love Songs” dei Derek and the Dominos, storica band fondata da Eric Clapton alla quale Derek Trucks deve il suo nome). “Layla and Other Assorted Love Songs” che vedeva alla chitarra slide Duane Allman, mentore e predecessore di Derek nella Allman Brothers Band: le premesse sono già eccitanti. L’amico che mi accompagnava al concerto non pensava che esistessero ancora gruppi che suonano per oltre 2 ore facendo lunghe jam improvvisate. Mi ha ripetuto più volte che gli anni 70 sono finiti, ma io ero sicuro che la band avrebbe mantenuto viva l’eredità delle jam band del passato. I TTB non solo confermeranno il mio presentimento, ma riusciranno anche a stupirmi, suonando 2 set con brani che superano agevolmente i 10 minuti di durata ciascuno e in cui ogni assolo è improvvisato e con durata non prestabilita. Derek Trucks, da vero leader della band, si erige a direttore d’orchestra: sbracciandosi e facendo cenni con la testa guida la band attraverso i vari soli e cambi di parte, indicando ogni volta il musicista che può esibirsi in un lunghissimo assolo. Insomma, l’eredità degli Allman Brothers Band non solo è al sicuro, è viva più che mai.
Arrivati al London Palladium la ragazza all’ ingresso, in una scena dal sapore molto British, urla le istruzioni per fare la fila in modo ordinato, e all’apertura delle porte con tutto il fiato che ha in corpo ci urla: “Welcome to the world famous London Palladium!”
Abbiamo due posti centrali nell’anello più alto del meraviglioso teatro, dai quali è possibile ammirare con attenzione ogni movimento di ciascun musicista. Soprattutto, è interessante vedere come si dividono le parti i due batteristi.
Arriviamo quasi per primi in sala e sul palco ci sono dodici postazioni vuote e ad accoglierci ci sono gli amplificatori accesi di Derek e Susan, e il Leslie che già sta girando. È proprio sul tastierista che va l’attenzione: questo è il primo tour europeo (e anche il primo lavoro in studio) di Gabe Dixon, che sostituisce il compianto Kofi Burbridge, storico tastierista della band prematuramente scomparso nel 2019.
Si abbassano le luci e la band entra in scena. Derek ha la sua solita Gibson SG donatagli da Galadrielle Allman, figlia di Duane, Susan ha la stessa Fender Telecaster verde acqua che la accompagna fin dai suoi esordi.
Il primo pezzo è una sorpresa ci lascia subito stupiti: la band attacca con “I’ve Got a Feeling”, brano dei Beatles dall’album “Let it Be”. Senza pause, la band scivola nel secondo brano “Don’t Let Me Slide, dal loro primo disco Revelator.
Il terzo brano è la stupenda “Let Me Get By”, tratta dall’album omonimo, che diventa una lunghissima jam in cui il nuovo tastierista si mette subito in luce, chiama l’assolo e con il suo Hammond B3 rende chiaro a tutti che razza di musicista abbiamo davanti. Poi prende la palla Derek che ci stende con un assolo (senza slide) meraviglioso: dico solo che la ragazza seduta accanto a me era visibilmente commossa. Il solo si trasforma poi una citazione del solo che Duane Allman fa su “Whipping Post” nel disco Live at Fillmore East. Non sarà affatto l’ultima citazione del concerto, e la cosa mi riempie di gioia.Il quarto brano è “All the Love”, tratto dal nuovo disco. La strofa molto rilassata porta ad un ritornello con un tempo dispari che a sua volta porta ad una lunghissima jam, nella quale la sezione di fiati composta da 3 elementi dà il suo meglio intrecciando le parti in un lungo solo.
La band continua a suonarci il nuovo disco ed il quinto pezzo è “Gravity”, tratto da I Am The Moon pt.3. Il brano è cantato da Dixon, il nuovo tastierista, che ci stupisce con la sua bellissima voce, che a tratti sembra quasi femminile. A questo punto Derek prende lo slide, ed è qui che inizia il vero spettacolo. Ogni ascesa del suo bottleneck su per la tastiera della Gibson SG arriva come una coltellata nel petto, i fraseggi sembrano imitare una voce umana e sono di una precisione incredibile.
Il brano seguente è “Take Me As I Am”, sempre tratta dalla parte 3 dell’ultimo disco. Si tratta di una struggente canzone d’amore cantata splendidamente da Susan che duetta Mark Rivers, uno dei 3 coristi della band.
Segue poi “Where Are My Friends” nella quale Mike Mattison (corista e seconda voce della band, già voce solista della precedente Derek Trucks Band) si prende la scena suonando la chitarra acustica e cantando con il suo inconfondibile tono caldo e rauco.
L’ottavo brano è “Idle Wind” dal loro secondo disco Made Up Mind, che purtroppo non ha il bellissimo solo di flauto dello scomparso Kofi Burbridge. Durante il pezzo però, Derek, posato lo slide, ci delizia con un solo spettacolare che sfocia in una frase che armonizzata con la sezione fiati ricorda gli Allman Bros. di Dickey Betts nei loro dischi successivi alla scomparsa di Duane. Segue un lungo assolo dei due batteristi: i suoni si intrecciano talmente bene l’uno con l’altro che sembrano venire da una sola batteria.
Finisce dopo poco più di un’ora il primo set e la band rientra nel backstage.
Dopo esattamente 30 minuti la band ritorna sul palco in una formazione rimaneggiata: il tastierista e la sezione fiati rimangano ancora a riposarsi, uno dei 2 batteristi prende la chitarra e Susan si limita a cantare. Ci suonano “So Long Savior” tratto da I Am the Moon pt.2, un Blues tutto slide che ricorda molto “I’cant Be Satisfied” di Muddy Waters, poi ognuno riprende i suoi posti e proseguono con “Last Night in the Rain” e successivamente “La Di Da” , entrambi dal nuovo disco.
Il quarto brano del secondo set manda tutti in delirio, si tratta di “Done Somebody Wrong”, brano di Elmore James, suonata però nella versione degli Allman brothers che può essere ascoltata sul “Live at Fillmore East”. Derek continua ad evocare il fantasma di Duane Allman rendendo l’atmosfera profondamente vibrante.
Continuano le citazioni: la band ci suona “Anyday”, dall’album Layla and Other Assorted Love Songs dei Derek and The Dominos. Le due linee vocali di Eric Clapton e Bobby Whitlock vengono replicate alla perfezione dalla Tedeschi e Mattison, i fraseggi di Duane, se possibile, vengono perfino migliorati da Derek Trucks, il quale fa un solo lunghissimo che poi scivola nell’assolo di “Blue Sky” degli Allman Brothers. Duane Allman sembra essere il filo conduttore di tutto il concerto.
Il quarto brano del secondo set è “Hard Case” seguita da una versione molto intima di “Don’t Think Twice it’s Alright” di Bob Dylan cantata da Susan.
Chiusa la parentesi, la band torna con decisione sul Blues e suona “How Blue Can You Get?” tratta dal Live at The Regal di B.B. King: il Palladium è in delirio.
L’ultimo pezzo del secondo set è “I Want More” che lentamente si trasforma in “Soul Sacrifice” di Santana, e arrivano immancabili gli assoli dei due batteristi. Il concerto è diventato ormai una Jam Session continua. La band rientra nel backstage per riuscire nuovamente poco dopo per i bis. Il primo bis è un’autentica sorpresa, si tratta di una bellissima versione di “Fire and Rain” di James Taylor. Alla fine del consueto ma mai banale solo di slide, Derek ingaggia un vero e proprio duello con la voce di Mark Rivers alternandosi fra furiosi fraseggi di slide guitar e vocalizzi in falsetto. La band decide di chiudere il concerto con “Signs, High Times”. Finito il brano tutto il Palladium si alza in piedi per una più che meritata standing ovation e noi usciamo consapevoli di aver visto la miglior band in circolazione nonché l’ultima vera Jam Band.
Matteo Pancrazi