Shake Edizioni
www.shake.it
Pag.324 - euro 22,00
Ian Zack, l’autore di questo bel libro, la prima biografia di Gary Davis, ha intitolato la parte introduttiva, “L’anti Robert Johnson”, perché secondo lui, Davis non ha avuto bisogno di vendere l’anima al Diavolo per acquisire capacità ulteriori, per il fatto che si era dedicato a Dio nelle vesti di predicatore, rinunciando a eseguire i blues in un momento dove poteva avere considerevoli opportunità professionali ed economiche. Continuare a cantare i gospel gli hanno permesso una confortevole casa in una zona ben tenuta di New York, e nel tempo la sua fede si è sempre più rafforzata tanto da attribuire la sua sopravvivenza alla mano del Signore: gli era stata negata la vista ma in cambio aveva ottenuto qualcosa di speciale, la vita appunto, anche se: “stavo malissimo perché mi sentivo rifiutato. In realtà a mia madre non è mai fregato niente di me e del mio fratellino, era fatta così, da come mi parlava sembrava che rimpiangesse che non fossi morto, me l’ha ripetuto un sacco di volte”. Ecco che, come anche per altri musicisti neroamericani, affidarsi ad una fede e di conseguenza eseguire gli spirituals e i gospel, era come sentirsi più sollevato da una esistenza sempre in bilico fra la vita e la morte nel mezzo di drammatiche condizioni. La sua canzone più famosa, “Death Don’t Have No Mercy” (conosciuta ai più grazie a Jorma Kaukonen-Hot Tuna) ha una componente autobiografica, “la morte non ha pietà su questa terra”, riferito al fatto che Gary Davis è stato l’unico figlio superstite su otto, gli altri, fra fratelli e sorelle, sono morti prima dei trent’anni. Davis aveva una personalità forte, era orgoglioso, determinato, coraggioso, e rispetto a qualche altro musicista cieco, Blind Willie Johnson, Blind Lemon Jefferson, Blind Joe Taggart, non era accompagnato da nessuno: “sai, ogni giorno facevo tanta strada fino a quando ho imparato ad andare dove volevo, mi muovevo tastando e ascoltando”. Il cantautore Harry Chapin disse di lui: “era lì davanti alla vetrina con il bastone bianco appeso alla cintura, e piegava l’acciaio delle corde della sua chitarra che sembrava dovesse fondersi. Era l’ultimo dei cantanti all’angolo della strada, la sua voce di gola era come il gracido di un rospo, ma è lui che ha inventato il blues”. Più volte Davis aveva affermato che non voleva suonare la musica del diavolo, ma non fu proprio così, perché per convincere la gente per strada a fermarsi per donargli qualche spicciolo, aveva modificato il repertorio passando dalla musica sacra, al blues, dal ragtime, alle canzoni popolari, unite alle sue doti di intrattenitore, tutto con una impressionate capacità tecnica con la chitarra acustica, confermato anche dal folksinger nero Len Chandler: “ogni tanto andavo a vederlo suonare, teneva la custodia aperta davanti a sé e si agitava e suonava e poi schioccava le dita, ma erano la sua intensità e l’entusiasmo e la pura e semplice qualità dello spettacolo che riuscivano ad attirare le folle e tenerle lì…”. Ian Zack scrive nel libro che Gary Davis ammise che fra le sue influenze c’erano anche, Memphis Minnie, Blind Lemon Jefferson, Blind Blake, Gene Austin e che ha imparato molto da Louis Armstrong, musicisti che avevano poco o niente a che fare con la musica sacra, dunque, è una ulteriore conferma che Il Reverendo Gary Davis ha avuto rapporti con la musica del diavolo. Così, senza nessun tipo di moralismo, ci siamo chiesti: perché una parte della popolazione neroamericana più devota, specialmente quella meridionale degli Stati Uniti, che non gradiva affatto che uno di loro potesse cantare e suonare in chiesa e poi da un’altra parte eseguire musica profana, non lo ha “sconfessato”, come è successo invece, per esempio, a Son House o a Sam Cooke dopo i Soul Stirrers, mentre anche Bobby Rush non è stato “additato” dalla sua comunità, malgrado in settimana si esibiva nei juke joint in concerti dai tratti “provocanti”, e poi la domenica andava in chiesa. Gary Davis lasciò la contea di Laurens in South Carolina dove nacque il 30 aprile del 1896 per trasferirsi a Durham nel North Carolina dove nel 1935 iniziò la sua carriera discografica con la ARC (American Record Company), che lo obbligò ad incidere due blues, perché vendeva bene, “I’m Throwing Up My Hands” e “Cross And Evil Woman Blues”, mentre lui non ne voleva più sapere della musica del diavolo perché era diventato un ministro di culto e dunque voleva cantare solo spirituals e gospel, ma a detta di alcuni testimoni, dalla sua chitarra continuavano ad uscire incredibili dinamiche, blues, jazz, ragtime, folk, hillbilly. “Il Reverendo Gary Davis: uno dei maghi della musica moderna” (Bob Dylan). Le incisioni portarono una attenzione verso di lui, per qualche problematica non fu preso da John Hammond per lo storico “From Spirituals To Swing” che si tenne il 23 dicembre del 1938 alla Carnegie Hall di New York, città dove si trasferì e dove all’inizio rientrava in quella categoria più emarginata, perché era un musicista di strada in uno stato di miseria e per di più con un handicap. Lui però aveva qualcosa che ai suoi pari mancava, un enorme talento. Da qui nel gennaio del 1950 la consacrazione definitiva con la partecipazione al tributo per Leadbelly. Piano piano abbandonò la vita di strada, le richieste di suonare in vari luoghi aumentarono, la sua esistenza divenne un po’ più ordinata e la popolarità fu ampliata grazie al trio, Peter Paul & Mary, che portò al successo la versione di “If I Had My Way”. Una generazione di futuri musicisti bianchi fu sedotta da quel Reverendo che cantava la musica sacra con accordi di blues. La lista è lunghissima, da Bob Dylan in avanti, dai musicisti folk a quelli blues e rock, mentre un pubblico, sempre di bianchi, lo applaudì convintamente ad una edizione del Newport Folk Festival. Gli anni sessanta sono quelli della definitiva consacrazione non senza qualche tribolazione, una confidenza di troppo con l’alcol, un conflitto interiore nel tornare ad eseguire i blues, un fastidioso contenzioso per il pezzo “You Got To Move” spiegato in due pagine. Il Reverendo Gary Davis muore il 5 maggio del 1972. Dentro questa coinvolgente storia di un musicista, predicatore e essere umano, c’è anche lo sviluppo del genere musicale e dell’industria discografica, e la deplorevole questione socio razziale. Il libro ha vinto il premio “Historical Research in Recorded Blues, Gospel, Soul, R&B”. L’unico appunto è in un passaggio della traduzione, dove il leggendario Roebuck “Pops” Staples viene passato per una figura femminile, “la matriarca del gruppo gospel delle Staple Singers”. In verità Pops è il fondatore, cantante, chitarrista e padre di: Cleotha, Pervis, Yvonne, Mavis, una meravigliosa famiglia musicale, The Staple Singers. Un altro libro necessario, corredato anche da documenti fotografici.
Silvano Brambilla