Marino Grandi. Fonte: Il Blues www.ilblues.org
Scrivere un ricordo di qualcuno che abbiamo stimato profondamente, con il quale abbiamo condiviso momenti speciali se non unici, più che difficile risulta strano. Certe persone non scompaiono mai. Rimangono tra di noi per quello che hanno dato, per quello che hanno trasmesso. La tristezza si mischia alla lezione, all’insegnamento, nella consapevolezza che tutto, ineluttabilmente, un giorno finisce. Vi vorrei raccontare di quando, tanti anni fa, Marino e io, nonostante la mia riluttanza, intervistammo un Henry Gray in camiciola nel suo letto in albergo, alle cinque di pomeriggio. Di quando, a metà degl’anni settanta, conducendo una trasmissione radiofonica, chiamavo Marino alle 11 di sera per le ultime notizie di Blues da Milano. E qui apro una parentesi su Milano, che a mio modo di vedere, era un po’ la Chicago Italiana. Nella città lombarda c’era tanta musica, c’erano le case discografiche, c’erano i clubs. Molto Jazz, con il mitico Capolinea, ma anche Blues, musica che a quel tempo conservava un fascino tra il torbido e il mistico. Tra quel pugno di lombardi alfieri del Blues, c’era Marino Grandi. Da Piazzale Corvetto in giù quasi un deserto, pochissimi musicisti, o aspiranti tali, di Blues. Critici ancora meno, quasi zero. E delle volte più dei fanatici che dei critici. A inizio secolo Io e Marino, con altri figuri, abbiamo fondato una confraternita segreta: i fratelli (poi anche sorelle) di Fritschi, noto – si fa per dire – ristorante nella città di Lucerna dove ci recavamo per l’omonimo festival di Blues, e dove abbiamo tentato molte volte di apprezzare, invano, la cucina elvetica. Ma il piacere, se non l’onore, di stare con Marino, era infinito. Parlando con lui, avevo l’impressione che stesse venti anni avanti, che avesse già visto e vissuto cose che altri solo intravedevano. Di natura riservata, non ti metteva soggezione dicendo che aveva portato a Milano Johnny Shines, avete letto bene, Johnny Shines, che il Blues Rock era una malattia infettiva, che conosceva questo e quello. Marino spiegava, informava, analizzava senza boria, senza quell’arroganza di appartenere a una élite culturale, cosa tutt’altro che scontata negl’anni settanta. Non voglio dire che senza di lui, nessuno avrebbe saputo che cosa è il Blues in Italia ma un’affermazione simile va molto vicina alla realtà. Con la sua rivista “Il Blues” ha dato a molti, me incluso, la possibilità di misurarsi con la critica musicale, di capire le tante sfaccettature del Blues, di provare l’ebrezza ma anche la fatica di giudicare il lavoro di musicisti senza risultare né offensivi né compiacenti. Questo non voleva necessariamente avere le stesse idee o gli stessi gusti, Marino lasciava ai suoi collaboratori ampia libertà di pensiero, cosa piuttosto rara nell’ambiente della critica musicale, dove ci si batte a spada tratta per un CD, figurarsi una recensione. Questa libertà veniva anche dai suoi orientamenti politici, dalle sue idee in un’accezione larga di giustizia e di eguaglianza, temi sui quali ci trovavamo sovente, anzi molto spesso, d’accordo. In un altro paese, uno come Marino sarebbe stato ricoperto di onori e prebende, che invece ha ricevuto negli States. Tant’è. Ormai la musica, per colpa o grazie alle nuove tecnologie, ha staccato gl’ormeggi dagli approdi di 60 anni fa: è semplicemente un mondo diverso, impossibile da giudicare se si è vissuto quello glorioso di quegl’anni. Tutto cambia, ma certe persone non scompaiono mai.
Luca Lupoli