(Schiffer Publishing, 2023) - $ 40
Cercando di sintetizzare una storia molto lunga, questo libro è la testimonianza fotografica, con l’aggiunta di introduzioni, premesse e interviste, di un’incontro discografico storico, non il primo, nemmeno l’ultimo, ma il più importante: il British Blues e il suo padre biologico, il Blues nella impersonificazione di alcuni dei suoi più grandi artisti americani ossia Willie Dixon, Otis Spann, Shakey Horton, J.T. Brown, Buddy Guy, Honeyboy Edwards, S.P. Leary. Un sestetto solo teorico ma di altissimo livello che non abbisogna di ulteriori presentazioni. Siamo alla fine degl’anni sessanta, il British Blues va ancora a gonfie vele, invece negli Stati Uniti malgrado il boom agl’inizi di quel decennio, il Blues non decolla come musica commerciale e presto verrà offuscato dall’ondata discomusic. Il Blues, volente o nolente, possiede già un folto pattuglione di musicisti bianchi americani, Butterfield, Bloomfield e compagnia bella, ma nei clubs di Chicago l’idea che il Blues possa esser suonato da giovanotti azzimati, che bevono il thè alle cinque di pomeriggio sotto il ritratto della regina, filtra a stento. Comunque sia, sotto la supervisione, assolutamente bi-partisan, di Marshall Chess e Mike Vernon, questo incontro ebbe luogo nei leggendari studi Chess a Chicago. Un po’ per caso, un po’ per amore, un po’ obtorto collo. La perfida Albione era rappresentata dai Fleetwood Mac nella loro migliore formazione blues, quella con Green, Spencer, Kirwan e ovviamente Fleetwood e McVie. Da questa unione anglofona usciranno registrazioni storiche, riportate in vinili e CD piuttosto famosi come Blues Jam in Chicago con una copertina alternativa intitolata Blues Jam at Chess (Blue Horizon), e Fleetwood Mac In Chicago (Sire Records), in generale uno dei dischi più venduti di Blues di tutti i tempi con versioni e copertine differenti. In tutto una ventina di pezzi dove emergono soprattutto Peter Green e Otis Spann, tanto che qualche giorno dopo, a New York, Otis Spann incide un altro disco mitico di quegl’anni, Biggest Thing since Colossus (Blue Horizon), prodotto da Mike Vernon coi Fleetwood Mac senza Fleetwood rimpiazzato da S.P. Leary. Le fotografie riportano fedelmente quella che si suppone fosse l’atmosfera in studio, attesa, momenti di pausa, un po’ di distanza tra americani e inglesi, con Vernon che si prodiga diplomaticamente con Dixon, e Spann che fraternizza con McVie, costantemente piegato sul suo Fender Jazz, come se avesse mal di stomaco. Impagabili i mocassini stivaletto di Buddy Guy. Non anticipo niente sul testo, peraltro abbastanza scarno, ma ho notato che nessuno utilizzava pedali quindi il sound fu da veri puristi, i tre chitarristi inglesi tutti armati di Gibson mentre Guy imbracciava una Stratocaster. Lowenthal arrivò negli studi Chess armato di Leica e qualche obbiettivo, niente flash e le foto in bianco e nero hanno quell’inevitabile tono grigio da interno illuminato da neon. Poche e mosse le foto a colori. Peccato non ci dica o non ricordi che pellicola ha usato. Il libro costa quaranta dollari, nemmeno poco, però se lo sfogliate riascoltando Blues Jam at Chess, con un piccolo sforzo vi sembrerà di essere proprio lì, seduti nello studio, tra il contrabbasso di Dixon e le sigarette di Buddy Guy. Un viaggio nel passato.
Luca Lupoli