Ricordiamo Leonard Cohen con l’articolo scritto da Ernesto de Pascale dopo il concerto di Firenze in Piazza Santa Croce il 1 settembre 2010
Leonard Cohen ha un sorriso sornione che mantiene per larga parte di ogni concerto nei posti dove si sente a suo agio. Chiamando il pubblico “amico”, togliendosi il cappello per salutarlo e per ringraziare con molti mezzi inchini i suoi compagni di avventura. Sul palco si circonda di facce note, di musicisti legati a lui da motivi diversi a partire dal direttore musicale, il bassista Gordon Beck, con lui dal tour del 1980.Dal vivo, bastano le prime note per capire che Leonard e compagni fanno sul serio e che i dieci musicisti sul palco a sostenere le declamatorie poesie in musica del grande canadese non sono solo una qualsiasi band di accompagnamento.
I brani vecchi che abitualmente propone brillano subito di luce propria: da Bird on A Wire a The Future fino a I’m Your Man e a una versione di Suzanne totalmente spoglia da qualsiasi orpello. Con il fido e “impeccabile” ( così lo introduce Cohen) Neil Larsen all’Hammond a cucire le parti e il multistrumentista italo californiano Pino Soldo, Cohen si sente ben protetto nel commuovere un pubblico in totale adorazione.
Ogni parola detta è declamata, ogni testo scandito affinché le parole davvero arrivino al cuore delle persone. E lui con il cuore ci pare cantare: pieno di voglia, di mettersi alla prova, forte dell’aver riscoperto un gioco – il concerto dal vivo – di cui aveva perso forse anche i ricordi.
Il chitarrista Bob Metzeger, con il canadese dal 1988, è l’anima americana del gruppo mentre il batterista Rafael Gayol, dal Texas, aggiunge un senso di desolazione con i suoi sparsi tamburi. ”Ricordatemi come un uomo che ha speso la sua vita per la musica” canta in First We Take Manhattan e le parole prendono un significato profondo mentre fuori “il mondo è pieno di cose terribili”, dice, e ringrazia perché “essere ascoltati oggi è un privilegio”. “Ho fatto del mio meglio, e anche se tutto è andato male io mi presenterò al Signore della Canzone con niente altro sulle mie labbra se non Hallelujah”.
Ed Hallelujah è il brano che presenta a ogni occasione con una fila interminabile di bis, di affetto, di voglia di tornare a cantare da parte di un uomo i cui segreti non sapremo mai ma che per pochi mesi si è preso una vacanza dalla sua volontaria segregazione per andare nel mondo con le sue grandissime canzoni.
Ernesto De Pascale