foto (c) Francesca Joppolo
“Era mia sorella”. Elaine Norman Sturkey è entrata in palcoscenico, vestita di rosso acceso, ha cominciato a parlare e The Metropolitan Opera House è diventato un luogo raccolto, A Celebration of Jessye Norman, il concerto in memoria che il teatro newyorkese ha dedicato al soprano americano (1945-2019), un avvenimento intimo per quattromila persone. Con naturalezza, Elaine, la piccola di famiglia, in pochi minuti ha pizzicato tutte le corde: di undici anni e mezzo più giovane della cantante, era una bambina quando la sorella lasciò Augusta, Georgia, per librarsi verso la sua carriera internazionale: “A casa aspettavamo con trepidazione le telefonate domenicali per sentire dei successi dai teatri di tutto il mondo. Sono sempre stata incantata da come Jessye usava il suo dono. Per lei la musica era un’espressione dell’anima. E le nostre anime erano vicine”. Ma oltre all’anima, come accade nelle vicende umane, c’è il corpo e per assecondare le sue necessità di artista e di diva la Norman viaggiava con un set di bagagli Louis Vuitton che, ha ricordato la sorella, pesavano già da vuoti. La soprano li riempiva all’inverosimile con il guardaroba da star, deumidificatori, teiere, bollitori e altri attrezzi tanto da farli diventare inamovibili. Mark Markham, il pianista che ha suonato con lei per vent’anni, racconta che gli impiegati delle linee aeree impallidivano al comparire della Norman in aeroporto: i colli erano di solito almeno sei, ma in occasioni speciali furono diciassette.
A sovrastare il palcoscenico del Met, il 24 novembre, un’ immagine imponente dell’interprete che ammaliò perfino von Karajan in tempi nei quali il direttore d’orchestra austriaco non cercava i suoi cantanti proprio nel Sud degli Stati Uniti: lo sguardo intelligente sotto un arco sopraccigliare altissimo, il sorriso irresistibile, i capelli lisciati. Era meravigliosa, era strepitosa, era unica. Nel foyer, prima del concerto, si rincorrevano gli aggettivi. “Era mia sorella” ha detto Elaine Norman e gli aggettivi sono stati spazzati via dall’emozione. Dopo di lei sono intervenuti brevemente, tenendosi alla larga dalla retorica sepolcrale, il fratello James Howard Norman, Peter Gelb che guida il Met, Clive Gillinson, direttore artistico della Carnegie Hall, la scrittrice Gloria Steinhem, l’attrice Anna Deavere Smith, Darren Walker, presidente della Ford Foundation, e Jack Lang, ministro della Cultura francese nel 1989. Fu lui a chiedere alla Norman di cantare La Marsigliese in Place de la Concorde, avvolta in un abito-mantello tricolore di Azzedine Alaïa che la rese torreggiante. “Chi se non Jessye avrebbe potuto farlo? È stata il simbolo della lotta per la libertà” ha spiegato Lang che si batté contro chi avrebbe voluto un’artista francese.
Il Met è parco nell’organizzare questi eventi, in passato lo ha fatto, fra gli altri (pochi), per Puccini, Caruso e Pavarotti. A Celebration of Jessye Norman è durato circa un’ora e quaranta: hanno cantato i soprani J’Nai Bridges, Lise Davidsen (negli stessi giorni al debutto trionfale in Dama di Picche), Renée Fleming, abbigliata sottotono, Leah Hawkins, Latonia Moore, il basso-baritono Eric Owens, il Metropolitan Opera Chorus e membri del Metropolitan Opera Porgy and Bess Ensemble diretti da Donald Palumbo; hanno suonato il pianoforte Mark Markham, Gerald Martin Moore, Damien Sneed, hanno danzato i ballerini del Dance Theater of Harlem e dell’Alvin Ailey American Dance Theater. Fra la musica e i discorsi, anche filmati delle interpretazioni con le quali la Norman conquistò il Met negli anni Ottanta e Novanta e quello di Amazing Grace per il tributo a Sidney Poitier, l’attore afroamericano più ammirato di Hollywood. E qualche stralcio di intervista: in uno la Norman raccontava, divertita, di quando da bimba la facevano cantare da sola in chiesa, tanto la sua voce era potente.
Isolde, Carmen, Didone, Leonore, Emilia Marty, Alceste, la Contessa Almaviva, Cassandra, gli ultimi quattro Lieder di Strauss, certo, ma la Norman era grandiosa anche quando si calava nelle proprie radici, non a caso il titolo di uno degli ultimi concerti, portato in tournée, era Roots: my life, my song nel quale cantava, fra l’altro, Sometimes I feel like a motherless child, When the Saints Go Marching In, My baby just cares for me, Stormy weather. Il pianista Mark Markham era con lei in questa avventura e ricorda entusiasta anche quando si esibirono al Montreux Jazz Festival: “Jessye amava sperimentare ogni possibilità della musica. Era dotatissima, curiosa, molto esigente con sé stessa e con gli altri. Aveva dovuto combattere come donna, e donna afro-americana, ma aveva trovato la sua strada. I giovani dovrebbero imparare da lei che cosa significa l’impegno”. Con il soprano, Markham ha dato quasi trecento concerti in trenta paesi e per lui la Norman era una diva solo se si trattava di bauli, abiti e preferenze alberghiere, ma la sua arte era pura: “Nelle sue performance c’era musica, veramente musica e solo musica. Sono stato molto fortunato a lavorare con un’anima bella, così piena di talento. La poesia scaturiva anche durante le prove, si poteva toccare. Entrambi amavamo molto provare”. Le prove più drammatiche furono a Lipsia, sei settimane dopo la morte del fratello più piccolo della Norman: “Jessye piangeva e mi chiedevo come ce l’avrebbe fatta. Era così interiormente turbata e sofferente che in concerto non servì aggiungere il dramma dell’interpretazione. Tutto fu reale. Tante persone ancora se lo ricordano e mi mandano messaggi su quella notte. E io me lo ricordo: Jessye era travolgente. Oltre”.
Francesca Joppolo
Nelle foto: il palcoscenico; Ute Lemper con Orly Beigel, concert promoter in Mexico, e Mark Markham; Markham con Blair Boone-Migura, fondatore di Art Song Preservation Society, e Curtis Bannister, tenore e attore; Renée Fleming (a sinistra)
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