(Squilibri editore)
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I 50 anni in buona compagnia sono già passati. Adesso è l’ora di guardare ancora più indietro per andare avanti. Non è un gioco di parole. I 50 anni sono il titolo del doppio album che aveva consacrato il primo mezzo secolo di storia della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Il disco Napoli 1534, appena uscito, già dalla data nel titolo indica un periodo ben preciso. Un ritorno alla storia immensa della musica napoletana individuando nelle moresche e nelle villanelle le forme da recuperare così come lo faceva il musicologo Roberto De Simone nei primi anni del progetto. Oggi della formazione dei Settanta sono rimasti solo Fausta Vetere e Corrado Sfogli che da tempo però sono affiancati da musicisti di grande preparazione e che soprattutto hanno compreso il carattere peculiare della Nccp presente dalla sua nascita: fare cultura sotto forma di intrattenimento ad alto livello. A partire dal cantante Gianni Lamagna al bassista Pasquale Ziccardi e al violinista Michele Signore, per citarne alcuni. Così le creazioni del XVI trovano nuova vita con grande piacere di chi ascolta, come la Moresca di Barrè e quella strumentale del Castello, Va’ figlia bella in tempo ternario, così come Quando te veco con Fausta Vetere in forma smagliante. Un nuovo capitolo importante di coloro che tra i primi hanno reso nobile il folk napoletano e di conseguenza quello nazionale.
Tracce
Fatte li fatte tuoie
Fra quante donne
Come campana
Moresca di Barrè
Moresca del Castello
Vulesse si putesse
Quando te veco
Donno Valentino
Na vota me ‘ngannaste
Va’ figlia bella
Tutto lu male
La primma vota
Intervista a Corrado Sfogli
L’inizio della Nuova Compagnia di Canto Popolare era nel segno della ricerca, a cui si è poi aggiunta la creatività. E’ un ritorno alle origini?
Più che parlare solo di ricerca, che comunque è presente, è capitato di arrivare a un punto nella nostra attività artistica in cui subiamo ancora il fascino di un’epoca. Una specie di malattia che ti spinge a vedere se ci sono ulteriori aspetti e brani da recuperare. Ci interessava un disco che non rappresentasse tanto un’operazione commerciale, ma che rappresentasse quella Napoli che nel ’500 si riscattava da sola attraverso la sua cultura e la sua musica.
Con quali caratteristiche?
Era il periodo dell’uomo rinascimentale, alla ricerca di un mondo nuovo e alla riscoperta di Platone evidenziando l’amore e il contatto con la bellezza. Un legame importante tra poesia e musica ma anche tra poesia e antropologia. Questo viene fuori dai testi che abbiamo recuperato con qualche modifica nella nostra interpretazione. Tutto ciò è legato alla figura del principe Ferrante di Sanseverino, che faccio parlare attraverso un mio scritto nel libretto del disco.
Ci può introdurre questo personaggio?
Lui è noto per non aver introdotto l’inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Ma è stato molto importante per la cultura della città che amava moltissimo. Cantava, recitava, accoglieva nella propria dimora le Accademie, organizzazioni in cui si facevano progetti culturali e politici. Il palazzo è ancora presente nella piazza del Gesù Nuovo, l’interno del quale poi crollò negli anni. La facciata con le piramidi irregolari è invece rimasta. Secondo Roberto De Simone può essere un simbolo di esoterismo, magari inconsapevole. Un aspetto che mi affascina molto.
Ascoltando l’album stavolta non ci sono strumenti elettrici, proprio come nei primissimi dischi
Però non abbiamo mai fatto filologia, neanche agli inizi. Il solo fatto che utilizzassimo la chitarra, per brani di epoche nelle quali non era stata ancora inventata, lo dimostra. In questo disco ritengo di aver reso al meglio forme come la villanella e la moresca, nella quale ci troviamo di fronte a un dialetto napoletano storpiato, dove si faceva spesso il verso del gatto. Pensi che gli schiavi mori erano chiamati in modo dispregiativo dagli spagnoli “perro” ossia cagnaccio, e la moresca era così una reazione a questo termine dispregiativo.
Michele Manzotti
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