Guy Clark
GLASGOW, THE ARCHES, 24 LUGLIO 2006
L’occasione era unica e probabilmente irripetibile: vedere in concerto per la prima volta Guy Clark, il vecchio desperado, capostipite assieme al compianto Townes Van Zandt di quella straordinaria scuola della canzone d’autore americana che, a partire dalla Nashville di fine anni ’70, ha nel tempo partorito straordinari talenti quali Steve Earle, Lyle Lovett e molti altri.
Con un nuovo disco appena uscito, “Workbench songs”, Clark ha adesso ripreso in mano le redini della sua straordinaria carriera a quattro anni dall’ultimo album e dopo aver superato alcuni problemi di salute.
Ogni suo passo artistico è per gli appassionati sempre un gran evento e così, subito dopo aver avuto notizia della rapida “puntata” europea di Clark che comprendeva anche un concerto a Londra ed uno in Irlanda, ho pianificato la mia missione sulle tracce del Maestro, grazie anche al supporto e all’ospitalità dei miei grandi amici scozzesi “Big” Stuart e Jennifer.
Il giorno 24 arriviamo in una calda e sonnolenta Glasgow; “The arches”, il luogo del concerto, è un favoloso locale situato proprio sotto la stazione centrale, con le volte di pietra a vista ed i tubi delle caldaie bene in vista sopra le nostre teste.
Un posto assolutamente adatto a Clark e alle sue storie di perdenti, treni e fuorilegge.
Quando alle 21 Guy sale sul palco l’emozione è forte: eccola là, la leggenda che si materializza davanti ai nostri occhi dopo anni e anni di sogni e di storie consumate dai solchi del vinile (prima) e del digitale (poi).
Accompagnato dal fido Verlon Thompson, straordinario chitarrista acustico nonchè ottimo vocalist, Guy si presenta subito in modo moto informale al pubblico, parlando e scherzando prima ancora di iniziare la prima canzone, avviando da subito quello che sarà il “mood” della serata.
Dopo un trittico iniziale da paura (“The cape”, “L.A. freeway” e “Texas 1947”), Guy inizia a sciorinare i suoi divertentissimi aneddoti da una vita spesa sulla strada: il pubblico ride, applaude, fa richieste a cui Clark risponde sempre.
E così tra alcuni indimenticabili classici che scorrono (“Randall knife” e naturalmente l’eterna “Desperados waiting for the train”) e nuova canzoni che classici già sono (“Magdalene”), c’è anche tempo per alcuni simpatici siparietti, come quando una giovane donna, in risposta all’annuncio da parte di Clark della fine del concerto data la stanchezza, ha gridato al vecchio hobo: “Vieni a casa mia!”.
Saggia ed ironica la risposta del texano: “Comincio ad essere vecchio per questo genere di cose!”.
Le luci svaniscono sulle ultime note di “Let him roll”: non dimenticherò mai l’ultima immagine di Clark che se ne esce dal palco con la chitarra in mano ed il pugno alzato verso il pubblico.
Sì, come a dirci che è ancora vivo, che c’è e ci sarà ancora.
Perchè la strada, come diceva Robbie Robertson, si prende la parte migliore di te, ma restituisce in cambio storie ed emozioni che devono essere raccontate e cantate.
E Guy Clark, in questo, è il Maestro assoluto.
Massimiliano Larocca