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DropAflo due interviste

“Gente pazza che strozza”, attenta arriva DropAflo!
di Salvatore Esposito

Incontro con DropAflo
di Bernardo Cioci

“Gente pazza che strozza”, attenta arriva DropAflo!
Intervista di Salvatore Esposito

Firenze, 17 maggio 2004. Jacopo Campatola, meglio conosciuto come Dropaflo è un giovane artista hip hop italo-americano dal sicuro talento. L’ esperienza maturata come freestyler e la sperimentazione continua sfociata nell’incontro con il produttore Jamar Chees, hanno portato Dropaflo a maturare come autore e interprete di brani in cui si fondono inglese e italiano in un linguaggio multi culturale che crea un effetto unico e mai scontato. L’ascolto del suo primo demo per la stampa italiana mi aveva impressionato non poco, questo incontro non ha fatto altro che confermare le mie impressioni, oltre infatti a mostrare una verve eccentrica nel dialogo, ho avuto modo di sentirlo improvvisare uno dei suoi pungenti rap nel suo studio di registrazione casalingo. Questo è il risultato della nostra discussione a ruota libera.

Come nasce la tua passione per l’hip hop?
Ho iniziato ad ascoltare hip hop a dodici anni. Ricordo che i miei mi regalarono un cd nel classico stile gangster, tipo Dr. Dre per capirci. Poi sono passato ad ascoltare materiale più underground e quindi meno commerciale. Ho comunque sempre fatto free-style da quando avevo quindici anni, ricordo che mi esibivo nelle feste con i miei amici di liceo.

Chi ti ha influenzato di più a livello artistico?
Sicuramente agli inizi gruppi come A Tribe Called Quest, o Dr. Dre, e tutti quelli che possono essere definiti come i pionieri del genere hip hop . Ora comunque mi sono messo alla ricerca di materiale hip hop italiano di gente come 99 Posse, Articolo 31, Caparezza, Jovanotti, Sottotono. Comunque ascolto maggiormente roba americana, è una cosa anche culturale alla fine, è un modo per tirare fuori tutte e due le culture e stabilire una visione unitaria.

Come ti vedi i tuoi dischi in rapporto a materiale più commerciale, penso ad Eminem?
Beh i miei dischi non hanno molto in comune con Eminem però la sua musica mi piace molto, è bravissimo, ha potenzialità enormi, sopratutto in fase di produzione. Mi piace di più nei vecchi dischi in cui cazzeggia di più, è più divertente, negl’ultimi le liriche fanno trasparire troppa depressione.

Come è nata la tua collaborazione e il tuo rapporto di amicizia con Jamar Chees?
Io e Jamar ci siamo conosciuti all’università, abbiamo cominciato lì a comporre canzoni, nel nostro studio lì a scuola. Poi abbiamo composto un brano “Autobiograph” da cui è nata l’idea di fondere le due lingue l’italiano e l’inglese, infatti prima è nato il testo in inglese poi è arrivato quello in italiano. Alla fine ci siamo accorti che l’idea di mettere insieme le due lingue funzionava e anche Jamar ne era convinto, perché era qualcosa che nessuno aveva mai sperimentato con l’hip hop a livello discografico. Allora ci abbiamo provato, è una cosa abbastanza particolare.

Come mai un produttore nato in una famiglia di amanti del blues decide di produrre un disco di hip hop?
L’hip hop è il blues dei nostri anni, è sullo stesso livello espressivo.

Come nascono le basi su cui tu scateni la tua furia hip hop?
I primi brani hanno un impostazione più elettronica quindi con loop campionati, ora ci stiamo dirigendo verso la composizione e l’esecuzione dei brani con strumenti veri, non solo elettrici ma anche acustici.



Qual’è la tua visione della musica?
Voglio che sopratutto certi testi siano diretti, che la gente si chieda ma viene dall’Italia o dagli Stati Uniti. Voglio far venir fuori questa mia doppia anima innanzitutto però allo stesso tempo, mi piace essere me stesso. Senza mostrare estremismi, senza pistole, soldi, donne come Puff Daddy. Lo stesso vale per gl’Italiani che parlano di spacciatori, donne a go-go, ma alla fine te li ritrovi la sera in piazzetta a fumare sigarette.

La prima traccia del demo Dropaflo, è ti inquadra anche come persona, ci puoi parlare di questa canzone?
Ho composto questa canzone durante gl’ultimi giorni che eravamo in studio, tenendo bene in mente il linguaggio che uso abitualmente a casa, un misto di italiano e inglese, e da lì ho tratto anche l’ispirazione. C’era bisogno però di raccogliere tutte le mie sensazioni e di fissarle nella canzone, alla fine abbiamo impiegato un giorno intero per realizzarla.

Da questo capisco che sei molto istintivo, quanto c’è di istinto nella tua musica?
Io ho iniziato a fare musica, facendo freestyle, che è praticamente tutto istinto, tutto quello che mi passava per la testa usciva dalla mia bocca, passando prima però attraverso il cuore. Poi mi sono messo a scrivere, a differenza di molti che prima scrivono e poi passano a fare freestyle per adoperare un altro modo per esternare le loro emozioni. Io metto così molto istinto nelle mie canzoni, cerco di cogliere tutte le sensazioni che mi passano per la testa. A volte mi prendo a pugni prima di entrare in studio, perché ad esempio devo incidere una canzone incazzata.

La seconda traccia Ribellione, è uno di questi brani incazzati ma da dove nasce la tua rabbia?
Guarda io sono una persona molto felice, certe volte mi incazzo, ma mi incazzo sul serio. Mi succede quando ci sono cose che vorrei andassero in un certo modo ma che poi vanno in modo esattamente opposto. Non so come spiegarlo, certo è che quando ho sentito quella base e mi sono sentito libero di sfogare la mia rabbia.

Qual’è la razza pazza che strozza?
Sono gl’Italiani e gl’americani, che non capiscono la mia idea, tutti quelli che sminuiscono la mia idea, fino a renderla nulla.

Tu non fai nulla per farti capire?
Certo che lo faccio, ma forse non è solo colpa mia.

Pensavo però che questa canzone si riferisse in generale contro la società?
Certo lo è. Si tratta di rispettare solo la mia idea, io mi incazzo perchè non rispettano le mie idee.

Com’è nata la collaborazione con Nadhi?
Nadhi, lavora con me insieme a Chees, andavamo a scuola insieme. Abbiamo fatto un po’ di testi insieme, e poi lavorato un po’ in studio. Credo comunque di continuare a lavorare con lei.

Questo demo, è quindi solo un primo passo?
Si, ma ne abbiamo registrato già un secondo e in più altri brani. I più nuovi hanno una nuova formula, infatti abbiamo campionato brevi frammenti di Ennio Morricone e di Fred Buongusto.

Quanto ti ha influenzato Jamar a livello di produzione?
Tantissimo, senza di lui forse non avrei questa visione, lui è riuscito a far emergere questo stile nuovo. Sto cercando di sfondare nel mercato americano, ma non attraverso una major ma con loro che sono un etichetta indipendente. Quando ho parlato con loro per la prima volta, e loro mi dissero di produrre dei pezzi che fondevano italiano e inglese, ho capito che la cosa poteva funzionare, anche se ho faticato non poco per trovare una scrittura degna, visto che sapevo leggere ma non scrivere benissimo in italiano.

Quali sono gli sviluppi futuri di questo progetto?
Intanto cerchiamo di fare musica per permettere agl’italiani di conoscere direttamente la cultura americana e di mostrarla per quella che è, a differenza di quanto fanno gl’artisti italiani che l’ hanno appresa da testi in inglese o dai film.

Un operazione di sdoganamento di una cultura?
Certo ma anche viceversa. Trasportare in america quella che è la cultura italiana, infatti ai miei amici americani piace moltissimo quello che faccio.

Certo negli Stati Uniti è molto apprezzata la nostra lingua?
Verissimo.

Come ti trovi in un etichetta indipendente?
Come in una famiglia, esco con Jamar, suo padre, mi sento benissimo. Ci sentiamo benissimo insieme.

Salvatore Esposito

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Incontro con DropAflo
di Bernardo Cioci


Metà marzo. A Firenze è la prima giornata di caldo primaverile, davvero un sollievo dopo il lungo inverno che ha avvolto il passaggio dal 2003 al 3004. E’ il tipico tepore che accompagna da sempre la fama del nostro paese, e che certamente non dispiacerà agli ospiti che mi accingo ad incontrare. Insieme ai colleghi Ernesto de Pascale e Michele Manzotti mi aspettano Jamar Chess, figlio di Marshall (inutile che vi spieghi chi sia, almeno non su questo sito), Jacopo Campaiola e Adam, e l’appuntamento è fissato al Mercato di S. Ambrogio, un angolo fuori mappa per chi non è fiorentino, peraltro offuscato dal ben più esotico Mercato Centrale, ma ideale per una chiaccherata tranquilla e lontana dai comuni centri d’aggregazione per turisti. Del resto, i tre non sono qui per girare la città, ma per lavorare sul debutto discografico di Jacopo, nome d’arte Dropaflo, rapper di origine italiana ma americano più o meno da sempre. A quanto pare l’idea di registrare l’album in Italia è venuta a Marshall Chess in persona che, memore del suo lungo lavoro a capo della Rolling Stones Records, ha consigliato al figlio di andare direttamente nel luogo a cui è mirato il lavoro che vuole realizzare. Jacopo è molto giovane, solo 21 anni, e ha una forte cadenza milanese. Sentendolo parlare, con quell’entusiasmo tipico di chi sa di essere ad un punto focale della propria vita, viene difficile credere che abbia passato sedici anni a Los Angeles, due a New York e l’ultimo a S. Francisco, città di cui si dichiara entusiasta: “ha una mentalità molto europea ed è leggermente fuori dai giri, offre la possibilità di crescere lontano da certi stereotipi”, spendendo comunque parole d’elogio anche per Milano, che definisce “molto hip hop” e dove a quanto pare alcuni amici gli hanno organizzato il primo concerto italiano. Viene naturale chiedersi cosa voglia dire crescere da bianco di origine italiana in un mondo ancora prevalentemente “nero” come quello dell’hip hop statunitense, e in tal senso la risposta di Jacopo è di un’onestà quasi spiazzante: “Non vengo dal ghetto, non mi sono dovuto confrontare con quel mondo. Quando ti ritrovi ai concorsi di freestyle senza storie di questo tipo alle spalle vieni giudicato esclusivamente in base al talento”. Si parla quindi di influenze, percorsi e amori musicali. Adam è il DJ che si occupa della produzione artistica del disco, chiarisce subito di provenire dal jazz, dal funk e dal soul, e mentre lo dice non si può fare a meno di immaginare le decine e decine di negozietti di vinile usato sparsi nella sola Brooklyn. Ha iniziato mettendo dischi in vari locali della Grande Mela, ma negli ultimi anni ha maturato la decisione di volersi dedicare solamente alla produzione, e lo racconta mentre Jacopo si dichiara il più strettamente addentro all’hip hop e Jamar, beh, a lui non c’è bisogno di chiedere quale sia il suo retroterra musicale, sia il suo cognome che la grossa scritta JAMAICA sulla sua felpa non lasciano grossi dubbi al riguardo. “Veniamo da tre mondi diversi, e integrarli nella maniera più naturale possibile è ciò a cui ci stiamo dedicando in questo esatto istante”, dice Jacopo. Di certo il suo stile, un peculiare misto di italiano e inglese, catturerà l’attenzione, e Jamar spiega: “Generalmente l’hip hop che incorpora linguaggi diversi lo fa soltanto nel ritornello, lasciando tutte le altre strofe in inglese, ma quello che fa Jacopo è ben diverso, lui riesce ad integrare italiano ed inglese con una velocità e con una naturalezza impensabili”. Una caratteristica piaciuta molto alle case discografiche che hanno avuto modo di ascoltare i demo. “Adesso”, continua, “l’obiettivo è cercare di progredire il più possibile durante il soggiorno italiano, puntiamo a tornare negli Stati Uniti con il disco in gran parte finito, giusto il tempo di mixarne alcune parti”. A parte questi pochi cenni, del disco in lavorazione si parla poco. Tutti tengono a precisare che le vecchie registrazioni sono molto primitive rispetto a ciò che sta emergendo in questi giorni, ma vengo comunque a sapere che Adam ha trovato qualche disco interessante (Morricone, Rocky Roberts) nelle rare bancarelle italiane, e che probabilmente verranno campionati sui pezzi nuovi, anche se il discorso si ferma più o meno qui. Nonostante la riservatezza, Jacopo ha comunque le idee molto chiare e vuole parlare di certi dettagli solo a lavoro finito, lo dice con l’atteggiamento molto rilassato che traspare anche nella sua musica. Non è un caso che dica di rispettare i Public Enemy (saltati fuori per caso durante la nostra chiaccherata) ma che al contempo le loro idee rivoluzionarie gli sembrano un po’ datate e di conseguenza non riescono ad entrare nel suo stile, citando piuttosto il produttore 9th Wonder come il nome che più lo attira nell’hip hop odierno. Per il resto, parola sua, i suoi ascolti si muovono indietro nel tempo, senza soluzione di continuità, e com’è logico si tocca anche l’argomento hip hop italiano, un mondo con cui il futuro disco dovrà necessariamente confrontarsi; cito Frankie Hi-NRG e Jacopo annuisce in senso di approvazione (“mi piace molto il video che girava verso lo scorso settembre”), ma dimostra di appassionarsi altre cose: “Penso che la scena italiana debba terminare un inevitabile processo di maturazione, ancora devono emergere voce che siano davvero capaci di rivelarsi personali, veramente italiane, c’è un’imitazione troppo palese dei modelli americani che finisce per rinchiudersi dentro una parodia. Vorrei davvero sentire qualche rapper italiano che porti uno stile ed un’estetica propri, a prescindere dal linguaggio”.

Bernardo Cioci


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