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Lennon e John
Oggi, che è così facile dimenticare tutto è ancora più facile dimenticare quanto John Lennon sia stato differente da tutto il resto. Il contesto era, in fin dei conti, cruciale: mentre sul palcoscenico McCartney ed Harrison, asciutti nei loro abiti ben stirati dividevano un solo microfono in due e Ringo si sollazzava sul suo podio dietro ai tamburi, Lennon, al microfono di destra, guardava il pubblico negli occhi, gambe ben piantate ad arco, ginocchia appena piegate, stivaletti con il tacchetto cubano ben in vista, grignando in modo lascivo, derisorio al punto da istigare belligeranza, addirittura sovrappeso rispetto agli altri. E se una giacchetta era sgualcita e non stirata, bene, era certo la sua! Un senso di anarchica non predicabilità lo accompagnava. Quando stava per parlare dava sempre idea che non sapeva cosa avrebbe detto, spesso- viene da pensare- era veramente così. Affamato di Lsd, Lennon scavò dentro di se cercando miseramente una risposta. Ono, come spesso ammise, lo salvò introducendolo all'arte politica e come una moglie della tarda allegoria vittoriana, lo mise in riga istigandolo al lavoro culturale . La simpatia di Lennon per il proletariato fu, dopotutto, il lato pessimistico del suo se stesso proiettato verso il mondo. Essa era solo in parte un onesto riflesso di se stesso. Lui oscillò sempre fra due poli: quello di una confidenza che andò via via perdendo e quello della megalomania. L' obbiettività lo eludeva sistematicamente. Quello che lo salvò fu la sua dolcezza e la sua arguzia che messe insieme, al fulcro della sua creatività, sprigionarono da dentro un talento sincero, inadulterato. Tutto ciò e il coraggio che dimostrò nel mantenere fede alle sue convinzioni lo differenziarono da tutti gli altri.
Questa sera, in casa c'è solo lui, John, il solitario, l'introverso, il perdente, e non aspetta nessuno, anzi aspetta se stesso, Lennon, l'immagine pubblica, il genio, il vincente. Entrambi in un incontro che dura una vita e una sera, quella del'otto dicembre milenovecentottanta vanno verso la stessa fine. Succede sul palcoscenico di Lennon e John di Giancarlo Lucariello con Giampiero Ingrassia e Giuseppe Cederna che per novanta minuti duellano tra le ombre e i fantasmi di una esistenza che esce dal mito e diventa una analisi per loro, per noi, per i fan dei Beatles della vita e delle sue zone erronee. Lennon, a dimostrazione della sua attualità e immortalità, è solo il pretesto per Ingrassia, che mostra qui le sue migliori arti e fa passi da gigante verso una completa acquisizione di una showmanship che i musical e il teatro leggero non gli possono dare, mentre John, per un intensissimo e profondo Cederna, è una dura prova di impegno a completamento di una carriera sempre in metamorfosi. I due attori sono chiari a proposito e affermano che lo spettacolo era una bella opportunità per calarsi dentro la propria vita. I Beatles e la carriera così burrascosa di John nei settanta sono richiamate con garbo e attenzione alle sfumature. Presto però Lennon viene accantonato ed è la storia dell'azione, del momento che ti blocca perché sai che al di là di essa al termine del percorso originale ci sarà al fine cruenta di un uomo ancora amatissimo. Così in Lennon e John si entra e si esce dalla realtà per cercare la realtà della realtà o la sua irrealtà. Tutto scorre dal punto di vista della tecnica, del testo, della recitazione. E quando Lennon saluta John, riappacificandosi con se stesso, per uscire ma dimentica il soprabito che John correrà a riportargli, una stretta al cuore ti prende. Mancano pochi attimi al termine del gioco. Ma la ruota continuerà a girare all'infinito...
Ernesto de Pascale
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