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Bruce Springsteen – Devils & Dust
(Columbia /Sony)
www.brucespringsteen.net



È sorprendente come a cinquantasette anni suonati Bruce Springsteen voglia continuare ad essere parte della domanda e della risposta. I suoi dischi continuano a non dare indicazioni su come risolvere i problemi, continuano a professare la dottrina del presente, continuano a indicare la luce della fede umana come unica strada da seguire e – giustappunto – la strada pare essere, ancora oggi, a trent’anni dal suo capolavoro “Born to Run”, “the safest place to be”, il posto più sicuro dove trovarsi.

Bruce non è dell’umore giusto in questo nuovo album.
Sarà stata la batosta di Kerry, sarà che viene in Europa un po’ troppo spesso perché le immagini dell’America che descrive cominciano a vacillare e il vecchio continente in fin dei conti non è poi così male, certo è che un tono accorato e malinconico pervade tutto il disco, per questi e altri motivi. Per assurdo si potrebbe dire che Bruce Springsteen è oggi molto più investito dai problemi sociali d’America di tanti suoi fan che da lui pretendono soprattutto energia. E “Devil & dust“ energia ne ha da vendere se si mette da una parte il preconcetto che l’energia in un artista corrisponda all’uso della potenza, dell’elettricità.
In “Devil & Dust“ abbonda invece un’energia antica, da lampada ad olio –azzardiamo – da “dodici acri ed un mulo“. Non siamo ai dischi della Library of Congress o alle raccolte della Folkways ma, se non fosse per le oculate del produttore Brendan O’Brian, poco ci manca.

“Devil & Dust“ ci metterà poco a entrare nel gotha dei migliori dieci dischi di Bruce : ha le carte in regola per canzoni – a partire da quella che dà il titolo all’album fino alla preghiera di “Jesus was an only son“ – e per autorevolezza. “Devil & Dust “ è anche il disco che, in qualche modo, deve sostituire nel cuore del popolo springstiniano “The ghost of Tom Joad “ (ci riuscirà? parliamone…), un album faulkeriano, steinbackiano ma in cui, dietro al grande pezzo che dava il titolo all’album, brillava solo il coraggio di Bruce e non molto altro. “Devil & Dust“, allora, non è né quello né “Nebraska“, né vuol essere “The Rising“, un disco con ottime canzoni ma che visse sulla scossa, male ingoiata dai suoi fan, di vedere Springsteen affiancato da un nuovo produttore, Brendan O’ Brian, a suo tempo con i Pearl Jam, proveniente da una visione tecnologica moderna della musica. In “ Devil & Dust “ Brendan entra invece a pieno diritto fra i collaboratori importanti di Bruce come prima di lui lo furono altri tecnici e produttori perché profondamente rispettoso dell’andamento delle canzoni, e trova un posto in quel ristretto giro di persone che sono la “famiglia“ del Boss.

Adesso che il cantautore del New Jersey non fa più regali agli uffici del turismo americano e non rappresenta più cartoline da Asbury Park, Springsteen ha aperto con “Devil & dust“ un altro capitolo dell sua storia. Con composizioni che faranno mangiare bile a un’ intera generazione di nuovi cantautori e anche ai suoi contemporanei che ogni tanto cercano di “ritornare “, Bruce licenzia brani alla sua maniera. Qui e lì assomiglia ai grandi come lui, Bob Dylan, Neil Young (Maria’s bed), Woody Guthrie ma poi pondera parole e accordi creando quell’unico grande suono. Concettualmente Bruce parla chiaro di sentirsi un pugile che tra botte prese e date continua la sua partita, né migliore né peggiore degli altri (in “The hitter” un brano modellato su “1913 Massacre“ di Guthrie, che aspettiamo ascoltare dal vivo per piangere perché non dobbiamo dimenticare che ai concetti si va anche per piangere, no fratelli?…)

Animato da una profonda qualità cinematica “Angel & Dust“ ha momenti potentissimi e ricchi di passione e altri fatti di immagini straordinarie (“Black Cowboys” forse il brano più alto della raccolta) passa a pieni voti qualsiasi esame se mai si dovesse sottoporre a uno. Ma con Bruce l’interessante non è la valutazione a breve termine dei dischi ma l’inserire questi nel contesto della sua carriera. Springsteen produce sempre dischi bellissimi, sopra la media generale di diverse spanne, e a noi che dovremmo professionalmente parlarne resta perciò solo la possibilità di rileggerli in prospettiva. In questo, anche in questo, Bruce appartiene alla categoria dei grandi, degli inarrivabili. Di quelli che forse in qualche modo detestano i personaggi delle sue canzoni ma, ci si immagina, Bruce tutto questo lo sa perfettamente. Ecco perché riesce a esprimersi bene, perché non deve mediare con nessuno se non con se stesso. Una bella fortuna per lui e un’indicazione che tutti quelli che credono nelle proprie possibilità devono perseguire, tentando in un modo o nell’altro di farcela. Nelle sue canzoni, poi, alla fine, uno ce la fa; sarebbe bello se fosse così sempre, anche nella vita reale.

Ernesto de Pascale


La recensione di Giulia Nuti

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