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I’m Not There: quando il cinema racconta l’irrealtà di un genio

Era prevedibile ed è puntualmente successo, I’m Not There di Todd Haynes ha diviso i fans dilaniani ma anche i critici. L’argomento trattato dal film, la vita di Bob Dylan, è un macigno sul quale hanno già impattato i tanti biografi ufficiali e non, che si sono cimentati nel raccontarla attraverso le pagine di un libro, figurarsi se a raccontarla si usano le immagini di un film. La storia recente del cinema è stata caratterizzata da un uso sempre più trasversale e personale di quest’arte. Ogni regista approccia il racconto della realtà, ma anche dell’irrealtà, usando il proprio gusto, la propria concezione della riproposizione e della trasposizione ma soprattutto sfruttando una personalissima poetica evocativa nell’uso delle immagini. Non bisogna scandalizzarsi dunque per il Bob Dylan raccontato da Todd Haynes in I’m Not There. Prima di tutto perché bisogna essere coscienti che soprattutto per quello che riguarda Bob Dylan, ognuno, ogni critico, ogni fans, ogni appassionato di musica rock, lo racconta in modo personale. In secondo luogo perché è il personaggio stesso, a pretendere che sia così. Haynes ha tentato, a volte riuscendoci bene a volte no, di rappresentare il totale distacco dalla realtà di Bob Dylan, le sue inquietudini, la sua sofferenza, la sua umanità, la sua crescita musicale, fisica, psicologica, spirituale, avvenuta costantemente sotto i riflettori. Proprio a causa del continuo interesse dei media sulla sua vita, Bob Dylan è stato sempre schivo, avaro di esternazioni personali, preferendo farsi raccontare, secondo la percezione esterna di coloro che ascoltavano le sue canzoni, piuttosto che raccontarsi o peggio ancora svendersi in memoriali e interviste shock su riviste scandalistiche. Questo per una sua scelta personale, ma penso anche per una scelta economica. Nel rock fa più rumore il silenzio, piuttosto che raccontare di aver sniffato le ceneri del proprio genitore (il buon vecchio Keith docet). Todd Haynes con I’m Not There, ha semplicemente raccontato il suo Bob Dylan, attraverso la sua percezione, il suo immaginario. Non a caso sono state scelte alcune canzoni e non altre, come ad esempio non è inserita nel film Tangled Up In Blue, molto più significativa per ricreare un parallelo cinematografico con la relazione sentimentale con Sara. I’m Not There esalta, drammatizza ed estremizza tutti i cambiamenti e gli sbandamenti della vita di Bob Dylan riuscendo nell’arduo compito di raccontarlo come un uomo piuttosto che come un artista. Basta leggere le espressioni di Cate Blanchette per ritrovare gli stessi occhi di Bob Dylan, quelli che rapiscono quando è sul palco, gli stessi di quando canta Tangled Up In Blue durante Renaldo e Clara. E’ in questo che si nota la bravura di un attore in quanto il cinema non pretende il racconto storico (per quello bastano le fiction) piuttosto pretende un gancio emozionale che rapisca lo spettatore. E’ ovvio che il risultato sia completamente differente dal documentario No Direction Home diretto da Martin Scorzese o ancora da Masked & Anonymous, proprio perché l’obbiettivo era differente. L’obbiettivo del film non era riprodurre la realtà passata cercando appigli e indiscrezioni biografiche, come il discusso Walk The Line su Johnny Cash, ma piuttosto far suscitare nello spettatore la curiosità di scoprire questo strano personaggio, usando la tecnica del chiaroscuro narrativo. Solo così si comprende anche il senso delle sei storie parallele interpretate da sei personaggi diversi, di sei epoche diverse, per raccontare una sola vita. Tra sviste, errori, imprecisioni, cattive rappresentazioni della realtà storica (ma qui ci sarebbe da discutere essendo come detto un tema abbastanza soggettivo, a meno che non siate vissuti accanto a Bob Dylan tutta la vita), sarebbe troppo facile condannare questo film che verrebbe distrutto in pochi secondi e bollato come bullshit. Tuttavia se anche la giuria del Festival del Cinema Di Venezia (non di un festival di provincia) ha riconosciuto a questo film alcuni riconoscimenti (vedi la Coppa Volpi a Cate Blanchette come miglior attrice e il premio speciale della giuria a Todd Haynes) , un minimo di validità artistica I’m Not There dovrà pur averla. Così come spiegare i premi come mezzo per spingere “mafiosamente” il film, appare cosa abbastanza triste, nonché ridicola. Passando alle critiche oggettive, sulla recitazione dei singoli interpreti dei sei personaggi, oltre alla premiata Cate Blanchette, merita di essere citato Franklin il ragazzetto che interpreta Woody, tra le delusioni invece è Richard Gere, che recita con l’espressione “che ci faccio qui?” la peggio delineata tra le sei personalità. Un discorso completamente a parte lo merita invece la colonna sonora, che sottolinea ogni passaggio in modo eccellente, ma su quella ci torneremo quando sarà disponibile nei negozi.

Salvatore Esposito


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