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Cognac Blues Passions 2006

Cognac Blues Passions 13° Edizione

Una dose d’eventi imprevisibili si sono accaniti sulla 13esima edizione di Cognac Blues Passions, il festival di Blues più imponente d’Europa. Erano anni che Giove Pluvio non si faceva vedere da queste parti per la fine di luglio; ogni tanto qualche spruzzo, un temporale notturno, ma solitamente molto sole e poca calura grazie alla vicinanza dell’oceano. Manca, quasi all’ultimo momento, Isaac Hayes, e rimpiazzarlo si rivelerà assia arduo. Tutto sommato, un’edizione minore dove solo la serata New Orleans ha veramente brillato. Bisognerebbe ripensare un certo numero d’elementi per dare una riverniciata al festival estivo più blasonato d’Europa; con gli sponsors che ha dietro non dovrebbe esser difficile. Le danze cominciavano quest’anno già il mercoledì con una parata di Brass bands – Repris de Justesse, Voodoo Skank, Brass Pocket e Caroline Jazz Band, poi la sera concerto gratuito – larga parte dei concerti in questo festival sono gratuiti – dei Big Boy Bloater sulla Chârente, il fiume che traversa Cognac. Gruppo inglese di buona fattura, i Big Boy Bloater suonano un west coast blues molto swing dove la tecnica – specialmente Deacon Turner al piano ma anche il chitarrista Big Boy - e l’impianto sonoro fanno la differenza.

Giovedì 27 luglio ecco la routine di concerti che cominciano a alle 11 di mattina per terminare a notte inoltrata. Spiega le sue ali il battaglione glorioso della MusicMaker – quest’anno presente in forze: Captain Luke e John “Cool” Ferguson sono i primi a scendere in campo, due artisti atipici, il primo un crooner vecchio stampo, il secondo concorre da sempre alla palma di miglior musicista sconosciuto; suona la chitarra con maestria ma eccelle al piano che suona solo in studio! “Rainy day in Georgia” e una “King Bee” d’altri tempi ci riconciliano con la buona musica suonata senza tanti fronzoli. Atipico tra gl’atipici, un’ora dopo nelle cantine del castello Otard si presenta James “Blood” Ulmer in bella solitudine, semiacustica e wah-wah, versione story-teller che suscita rispetto ma non arriva a trascinare le folle. Nubi, vento, aria di tempesta; Terry Evans comincia a cantare sotto cattivi auspici, artista dotato vocalmente non troppo originale, si fà apprezzare per la sincerità delle sue esibizioni, qui ben spalleggiato dal ticinese Joe Colombo, il quale usa sovente la national slide, e da l’organista Hence Powell. Prima della pioggia, c’è giusto il tempo di vedere in piazza Francesco I il promettentissimo australiano Ash Grunwald, lui sì dotato di grande personalità, misto possente d’influenze come Junior Kimborough e Son House. Alle 11 e poco più, Otis Clay comincia un concerto per pochi intimi che in qualche modo hanno trovato il modo di sfidare la pioggia. Si rifarà in modo straordinario nell’ultima giornata, con un concerto acustico sold-out che costringerà gl’organizzatori a chiudere le cantine del castello Otard, ormai trasformatesi in un girone dantesco. L’indomani ritorniamo all’aperto, in riva al fiume per vedere l’ennesima, ultima, scoperta del Chicago Blues, Smilin’ Bobby, chitarrista-cantante sessantaseienne nato a Helena, Arkansas, una delle residenze secondarie del Blues. Nonostante la presenza di Kenny Smith, figlio del mitico “Big eyes”, un e repertorio classico da “Little by little”, “How Blues you can get” e “Walkin’ in the park”, Smilin’ Bobby non convince, sembrando bluesman di seconda o terza linea, senza infamia e senza lode. Una bella sorpresa é invece Jimmy Thibodeaux, fisarmonicista doc della Louisiana, nonostante l’uragano Katrina gl’abbia portato via casa e altre quisquilie. Chiaro é che quelli come Thibodeaux non si fanno fermare da un urugano: le sue performances a Cognac, abbondantemente annaffiate dall’omonimo liquore, sono state tra i momenti migliori per passione e semplicità. Piatto ricco mi ci ficco: la serata, dedicata a New Orleans, continua con Davell Crawford, Irma Thomas e i Neville Brothers. Nipote di Lionel Hampton, Davell Crawford s’era messo in luce, giovanissimo, proprio in terra di Francia. Nonostante un periodo di riflessione, il suo talento non riesce ancora ad emergere anche per via di un repertorio da crociera, con “Let’s the good time roll” e “Sad sad song”. Ottimo il suo batterista, tale Kindler Carto. Anche Irma Thomas rispunta dopo un periodo grigio, con un disco nuovo e il favore di una critica che si può definire proustiana nel suo accanimento a riciclare anche coloro che potrebbero e vorrebbero passare il loro tempo davanti al caminetto con un gatto sulle ginocchia. Per fortuna non é il caso della Thomas, di presenza scenica notevole con vestito e turbante bianco e con una voce assai potente. Se la cava alla grande con “Bright lights, big cities”, “Since I’ve been loving you” scivolando poi nel caramelloso con “Time is on my side”, sua ma portata al successo dai Rolling Stones, e “Simply the best” che riaccende la teoria d’un parallelo con Tina Turner, e non si sa se sia un complimento o un’offesa. L’organista Stephen Chaplin rifulge con un fraseggio secco in una band già ottima di suo. I Neville Brothers sono troppo bravi per parlarne bene, diciamo che offrono un sound troppo tipicizzato per esser un’esperienza indimenticabile. Girava la voce che, arrivati tardi, non avessero fatto nemmeno il sound check. Voce difficile da confermare perché il loro concerto é stato eccellente, la band che gira come un orologio su un repertorio accattivante ma straconosciuto che solo dei grandi musicisti possono suonare con un tale risultato. Tra i tanti momenti magici, “Fever”, “Aint no sunshine”, “Yellow moon” e una stravolta “Foxy lady”.

La terza giornata comincia con un’incursione intellettuale nei risvolti socio-musicali dell’uragano Katrina, quello che ha devastato New Orleans, grazie ad un filmato girato pochi giorni dopo l’evento da Marc Oriol, cantante-chitarrista francese e bluesman militante, cha ama esercitarsi con ottimi risultati anche in altri campi artistici. Dopo il documentario Mark Stone, musicista di New Orleans, ha fatto una messa a punto sullo stato attuale delle cose, per la verità non molto promettente. Gl’astanti hanno poi dato vita ad un dibattito vecchio stile che potremmo definire da vecchi tromboni; per attimo sembrava d’esser entrati in “Ecce bombo”. La musica riprende il sopravvento con Macavine Hayes, Eddie Tigner ed altri musicisti della squadra MusicMaker. Macavine e Tigner stanno agl’antipodi: l’uno cantante sguaiato, quasi brutale, ma originalissimo, il secondo pianista composto che fa dell’eleganza la sua arma migliore. Sempre in quota MusicMaker, Slewfoot & Cary, un duo che sembra uscito paro paro dalla notte dei tempi di Woodstock; entrambi magri e allampanati, fanno un country-blues senza complessi mischiando “I shall be released” a “I will play these blues for you”, chitarra acustica, armonica e basso acustico. La sera accoglie James Blood Ulmer in versione elettrica, con un gruppo che include violinista, armonicista e seconda chitarra oltre alla sezione ritmica, ricalcando la formazione che ha dato alla luce “Memphis Blood Sun Sessions”, il suo disco migliore in tempi recenti. La magia non si ripete e le versioni lunari di “Spoonful” e “I just wanna make love to you”, forse per via d’una concezione del Blues come mero esercizio intellettuale, non attecchiscono presso il pubblico dell’anfiteatro. Per la cronaca, il secondo chitarrista era Vernon Reid. Prima grossa sorpresa: dopo qualche esitazione su dove “casser la croûte” = dove mangiare, ci s’imbatte in Jack Bon, un chitarrista francese non giovanissimo che sta tra il musicista di strada e il rocker vecchio stile. Il risultato é sorprendente: con una sezione ritmica assai oliata da vita ad uno show che ricorda il compianto Rory Gallagher nei suoi momenti migliori, inclusa una “Bullfrog Blues” che schizza via come un tappo di champagne. Più tardi, sempre in piazza, altra grossa sorpresa coi Mudzilla, gruppo francese dalla formazione mutevole ma di straordinaria riuscita che fa un repertorio vagamente swamp piuttosto originale. Tostissimo il chitarrista Florian Royos: “Fire in the bayou” con Tim Burton,il chitarrista di Thibodeaux é stato un bel momento. L’attesa per Essie Mae Brooks, pura cantante Gospel, era notevole; il suo “Rain in your life”, uscito già qualche anno fa su MusicMaker, rimane intatto nella sua bellezza, impreziosito dal piano di John “Cool” Ferguson.

Il palco principale, che esige una rappresentazione che va al di là del mero fatto musicale, non rende giustizia a questa artista immensa. Alla fine si ricorre al trucchetto di far cantare un gruppo di bambini, tutto molto simpatico, ma sullo stesso palco Solomon Burke c’era riuscito in modo assai più convincente. Per tornare ai giovanissimi, chiude questa carrellata la terza sorpresa, Tia e The Patient Wolves (Lupi Pazienti) e l’armonicista Big Dave, che é ovviamente un tipo grosso col cranio rasato, mentre Tia é una ragazzina magrissima che sembra si pieghi sotto il peso della chitarra. Fanno un Chicago-Blues basico con grande feeling e coi suoni giusti, facendo salire la temperatura con studiata lentezza.

Visti di sguincio o solo sentiti in lontananza: Betty Lavette, vedi recensione concerto Festilac. – Ilene Barnes, una stangona di grande presenza fisica, fa un pop-blues discutibile ma potrebbe avere un futuro se qualcuno le dirà cosa suonare. – Dago Red, salvo errori il secondo gruppo italiano a venire a Cognac in 13 edizioni! Originali per gli standard italiani non per quelli europei, anche loro soffrono i grandi spazi. – Roland Tchakounté, Afro-blues, una formula che, malgrado qualche invenzione, sa di “rechauffé”, di riscaldato. – Hell’s Kitchen, elvetici poco puntuali, sono arrivati infatti con un anno di ritardo, i bravissimi Bulldog Gravy visti qui l’anno scorso suonano, meglio, nello stesso stile. - Malted Milk, hanno vinto il premio della critica locale, ma i Mudzilla son migliori. – John Bohnsack, ottimo pianista boogie-woogie, stirpe di cloni o quasi. – Earth, Wind and Fire featuring Al Kay e the James Brown Tribute Revue, no comment.

Luca Lupoli


CAPTAIN LUKE, Bluespassions 2006

Sommaire Bluespassions 2006
(Si vous n’avez pas le temps de lire l’article en italien...)

La 13ème édition de Bluespassions a été marquée par la pluie et par l’absence cause maladie du prophète de la Soul, Isaac Hayes, dont les remplaçants n’ont pas été, hélas, à l’hauteur. Pas facile arranger le programme au dernier moment dans un pays ou, en été, il y a 700 festivals musicaux. Il faudrait également que les organisateurs fassent attention à ne proposer à l’infini des artistes magnifiques mais bien connus comme Otis Clay, ou qui se sont produits récemment sur la scène européenne comme James Blood Ulmer. Cependant, Bluespassions possède plusieurs flèches dans son arceaux et est donc capable de satisfaire tout véritable amateur du Blues : des artistes parfois inconnus mais au talent remarquable sillonnent les rues de Cognac. C’est le cas de Jack Bon, guitariste-chanteur qui retrace le chemin du regretté Rory Gallagher avec grande efficacité, épaulé par une section rythmique qui connaît bien son affaire. Surprenante la très jeune Tia à la guitare et son associé Big Dave à l’harmonica, un duo bouillant qui a délivré du Chicago-Blues au décoffrage brut, un style qui demande de la qualité technique et connaissances en matière. La troisième belle surprise est Mudzilla, qui jouent du Swamp-blues aux teintes West-coast avec une aisance difficile à trouver dans un groupe européen. Gare au guitariste Florian Royos ! Autre découverte : Ash Grunwald, australien qui surfe en acoustique sur les note immortelles de Son House, Robert Johnson et Junior Kimbourogh avec assurance et originalité. Il y avait aussi une trinité importée directement de la Louisiane : Davell Crawford, Irma Thomas et les Neville Brothers. Crawford et Thomas ont un répertoire en dessous de leurs capacités et c’est dommage gaspiller des talents pareilles avec des chansonnettes, tandis que les Neville Brothers sont ancrés à un son très caractérisé, mais leur concert, à lui seul, aurait valu le prix du billet. Le bataillon MusicMaker incluait Essie Mae Brooks, Captain Luke, Sol, Eddie Tigner, Macavine Hayes, Slewfoot & Cary et le redoutable John « Cool » Ferguson. Des personnages attachants qui ont surtout le don de l’originalité mais qu’arrivent parfois, comme Brooks et Ferguson, à enregistrer des disques divins (Rain in your life, 2001). Excellent l’accordéoniste Jimmy Thibodeaux et son groupe qui jouent du « crazy-cajun » effervescent. Le Blues sophistiqué de James Blood Ulmer et son charisme n’ont pas réussi à transpercer l’assistance. En solitude, Ulmer manque un peu de chaleur tandis qu’avec son groupe – qui incluait Vernon Reid – a souffert la taille du plateau, trop grand pour une musique pareille, un destin qui a également frappé Essie Mae Brooks. Dommage parce que son « Memphis Blood Sun Session » reste un des albums les plus intéressants des années récentes. A l’interview Betty Lavette, très bon son concert, a dit préférer un group sans section des cuivres, mais à notre avis son spectacle, spécialement sur les morceaux rhythm & blues, pourrait en bénéficier. Terry Evans chante avec conviction soutenu par des musiciens de valeur, lui aussi pourrait revoir son répertoire qui, par endroits, ne lui rende pas justice. Smilin’ Bobby devait être la surprise de ce festival, présenté par la critique comme le dernier éminent bluesman de Chicago encore inconnu. Sauf rêver en couleur, il aura fallu un véritable miracle pour entrevoir du grand Chicago Blues dans le concert du bienveillant Smilin’, un guitariste moyen avec un group très moyen. Bluespassions 2006 a vu autres artistes captivants : Malted Milk, group français très promettant, Roland Tchakounté et son Afro-blues, John Bohnsack et son boogie-woogie, les Big Boy Bloater qui ont ouvert les danses mercredi 26 juillet avec du jump blues bien épicé. Il y avait, bien évidemment, aussi des musiciens un peu moins enthousiasmants, mais il faut avouer qui l’organisation a bien agi en nommant Otis Clay, la meilleure voix de la Soul à l’heure actuelle, Président d’Honneur de festival édition 2006.

Luca Lupoli

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