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Ladies and Gentlemen, here you have The Blues

“La gente ama immaginare i grandi cantanti blues come selvaggi, istintivi, con talento e genio che scorre dalle loro dita. Ma John Lee Hooker, Bessie Smith, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Blind Lemon Jefferson e tanti altri talenti, più nomi di quanto spazio abbia a disposizione, sono fra i più grandi artisti che l’America abbia mai avuto. Quando ascolti Leadbelly, o Son House, o Robert Johnson, o John Lee Hooker, o Charley Patton, o Muddy Waters, sei completamente trasportato, il tuo cuore è scosso, vieni rapito e ispirato dalla loro energia viscerale e dalla loro onestà emozionale, solida come una roccia. Vai dritto al cuore di ciò che è l’essere umano, la condizione di essere umano. Questo è il blues.”

—Martin Scorsese

Martin Scorsese ama il blues, ed il suo è un amore profondo, devoto, di lunga data. Ciò che non è mai stato un mistero – basta ascoltare i molti bluesmen che abitano le colonne sonore dei suoi film, da Mean Streets in poi – si è da poco trasformato in idea importante, una celebrazione che in futuro sarà ricordata fra le più importanti nei confronti di quella musica che Willie Dixon ha acutamente definito “le radici, e il resto sono i frutti”. Da questa idea è nato un ciclo composto da sette documentari, intitolato poco fantasiosamente The Blues, che non potrebbe cadere in un anno migliore: il 2003 è stato infatti dichiarato ufficialmente Anno del Blues dal congresso americano, che ha perfino contribuito in termini economici al progetto. Molti commentatori sono convinti che il traino commerciale legato alla serie rischi di essere enorme, e questo aprirà la strada ai molti progetti discografici, dalle numerose ristampe che stanno per uscire, ovviamente con suono rimasterizzato, ad una serie di box set editi dalla Sony, uno dei quali conterrà il meglio delle sette colonne sonore.
E da noi? Il primo film che gli spettatori italiani hanno potuto vedere è The Soul of a Man (L’Anima di un Uomo), realizzato da Wim Wenders e uscito nelle sale ad inizio estate. Il prossimo in lista si intitola From Mali to Missisippi (nelle sale italiane a partire dal 3 ottobre) ed è l’unico documentario girato dalla mano di Scorsese, che idealmente lo pone ad apertura di tutta la serie. Mosso da uno stile sobrio, che cozza dolcemente con il ritmo pelvico e sudato dei film di Levin e Pearce, From Mali to Missisippi vuole cercare il cordone ombelicale che unisce il blues dei campi di cotone alla musica dell’Africa occidentale, ovvero il centro nevralgico nella tratta degli schiavi che fu. Come presupposto è decisamente ambizioso, ma quello che sembra un enorme – e forse impossibile – sforzo storico, viene superato grazie ad una ricerca prima spirituale che filologica. Scorsese non intende sciorinare solo nomi, date e filmati d’archivio, preferendo cercare tracce di quella dimensione puramente interiore che si manifestava sugli ex campi di cotone come nella savana malese. Viene da se che la carne al fuoco sia tanta, e alla fine dei titoli di coda si rimane con la sensazione di voler sapere qualcosa in più. C’è anche da dire che il film perderebbe ulteriore efficacia senza l’umiltà di Corey Harris, giovane stella del blues contemporaneo e sommo cicerone nei meandri delle 12 battute, ma quasi spaesato di fronte alla forza che Alì Farka Touré evocherà davanti a lui durante il breve soggiorno africano.
Dalla trascendenza del Mali si passa ad una dimensione puramente urbana. Ci rechiamo a Chicago, per il viaggio che ci propone Marc Levin in Godfathers & Sons. Questa volta a prenderci per mano è Marshall Chess, figlio di Leonard, capo della storica Chess Records e scopritore di alcuni fra i più grandi talenti della storia del blues e del rock‘n’roll. Con lui c’è Chuck D, voce dei mai troppo lodati Public Enemy e uno dei più pungenti commentatori sociali che l’America nera abbia prodotto. Il presupposto della pellicola nasce da un’e-mail mandata a Chess proprio da Chuck D, e da qui partirà l’idea di realizzare un disco (che a quanto pare uscirà l’anno prossimo, proprio su Chess) con la vecchia band che ha suonato in Electric Mud, forse l’album più sottovalutato di Muddy Waters, da affiancare ad una giovane stella dell’hip-hop come Common. Sorpresa delle sorprese, la reciproca ammirazione fra gli anziani suonatori di blues e i giovani alfieri dell’hip-hop; mai si era vista la dimostrazione del rapporto stretto fra due generi che apparentemente si sono sempre mossi in direzioni diverse.
Si immagina il blues ed istintivamente viene da pensare all’America, eppure anche tanti ragazzi inglesi ne hanno preso in mano la materia rovente, forgiandola poi in alcune delle migliori pagine rock che si ricordino. Se ne occupa Mike Figgis in Red, White & Blues, un documentario molto dettagliato con cui si racconta l’arrivo improvviso del blues in terra della Regina e la lungimiranza di appassionati come Alexis Korner, che pian piano convertirono molte persone a quella musica così cruda, distante anni luce dalle big band di jazz e dallo skiffle che dominavano i gusti dell’epoca. Il tutto avviene anche grazie alla performance esclusiva di una band composta, fra gli altri, da Van Morrison, Tom Jones e Jeff Beck, mentre fra gli ospiti chiamati a commentare quei tempi ci sono nomi come Eric Clapton, John Mayall e Lonnie Donegan, ovvero la stella inglese cinque minuti prima che i Beatles salissero sulla scena.
Dal British Blues si salta nuovamente negli States, alla volta di Memphis, la città di Elvis ma anche di B.B. King e tanti altri grandi del blues. Il tourbus di Bobby Rush, stella minore del cosiddetto chitlin circuit, ci guida nel cuore di un mondo fatto di pochi lustrini e tanto lavoro duro. Ne esce fuori un documentario dallo stile leggero, probabilmente il più divertente della serie, che si permette addirittura di gettare luci e ombre su una città accusata di trattare i propri miti con troppa sufficienza. Esemplare il caso di Rosco Gordon, il cui stile pianistico seminale non è servito a salvarlo dall’oblio durante gli anni ’70 e ’80. La sua morte, avvenuta durante il corso delle riprese, unita al passo tremulo ed allo sguardo stanco di B.B. King, testimoniano quanto siano lontani i giorni dell’oro, ormai soltanto rappresentati dalla nostalgia di una riunione sul palco e prossimi a scomparire insieme a questa generazione di musicisti.
Dopo questa abbuffata ci aspettiamo grandi cose dagli ultimi due capitoli della serie. Intorno alla fine dell’anno dovrebbe toccare a Piano Blues, firmato da Clint Eastwood, che a quanto pare è da sempre un fanatico di blues suonato sui tasti bianchi e neri. Visto il nome in questione è probabile che finisca subito nelle sale, mentre il destino di Warming by the Devil’s Fire di Charles Burnett è più incerto. Burnett è l’unico cineasta di colore ad aver aderito al progetto, e sulla carta il percorso del suo film – la storia di un ragazzino nero negli anni ’50, che si incrocia ad uno studio sulla contrapposizione fra gospel, musica di Dio, e blues, musica del Diavolo – sembra fra i più interessanti.
Questo è l’immediato futuro, ma alla fine ciò che rimane dei film già visti è il desiderio di ascoltare, di capire, di addentrarsi ulteriormente in questa musica che tanto ha dato al ‘900 e alla sua storia. Ed è anche in questo che The Blues si dimostra una serie potente, eterogenea e strutturata con intelligenza (“non ci eravamo posti nessun obiettivo a priori, se non quello di trasmettere una passione alle generazioni più giovani, o se non altro di far loro vedere da dove vengono, da dove veniamo tutti”, sono parole di Alex Gibney, uno dei produttori), ma soprattutto con uno sconfinato amore verso “la forma d’arte più alta che gli Stati Uniti abbiano saputo creare”. Ci auguriamo che i distributori italiani ne facciano il miglior uso possibile.

Bernardo Cioci


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